“La felicità è un sistema complesso”, l’ultimo film di Gianni Zanasi: la logica della disgregazione
A formalizzare l’idea della “Logik des Zerfalls” è Adorno che riesce a rompere il paradigma filosofico della sistematicità: per secoli le migliori menti si erano affannate nel cercare di raggruppare, classificare e unificare il molteplice in un unico, maestoso, infallibile sistema.
Con Adorno, finalmente, il molteplice viene osservato nella sua eterogeneità, in tutta la sua – anche anarchica talvolta – forza disgregante: il Tutto compatto ed univoco non può esistere poiché le dinamiche storiche e particolari non possono essere definibili, non si possono rendere e categorizzare senza ammettere l’ambiguità profonda che manifestano. Non si può formalizzare un sistema che unifichi la frammentarietà del mondo sensibile e di quello pensabile: l’identità osservante deve agire contro se stessa per arrivare a comprendere l’altro da sé, senza però autodistruggersi. Adorno rivoluziona persino l’idea di dialettica: la dialettica è negativa poiché smonta il processo di definizione dell’Essere.
Dunque per riuscire a rapportarsi alla contraddizione Adorno formalizza la mediazione come il “passaggio del pensiero attraverso gli estremi” e la coscienza: il filosofo affida al pensiero il dovere di riconoscere, tutelare l’alterità e renderla concretamente conoscibile. Tale premessa risulta necessaria per comprendere fino in fondo la poetica straniante dell’ultimo lavoro di Zanasi il cui titolo rivela una intenzione registica effettivamente complessa.
Affermare che la felicità è un sistema complesso significa, di fatto, indicare allo spettatore come porsi rispetto al film: i personaggi di Zanasi non cercano la felicità, né la trovano; i personaggi di Zanasi raggiungono in primis la consapevolezza della complessità di affrontare l’ambiguità del proprio rapporto con gli altri e della complessità di accettare l’alterità di sé rispetto alle maschere sociali – ed economiche -che per autodifesa od imposizione esterna hanno dovuto applicare alla propria coscienza. Questo è solo il punto di partenza del processo, solo dopo questa mediazione sarà possibile svegliarsi e cominciare a pensare alla felicità come meta.
Il processo di Enrico Giusti – è questo un nome parlante: il protagonista crede di lottare la new economy con l’etica – ha il compito di allontanare gli imprenditori irresponsabili, le cavallette, dai loro imperi altrimenti destinati alla bancarotta.Enrico è convinto di portare avanti un progetto utile: utile ai dipendenti, utile alla società intera, ma il suo è solamente un alibi. Di fatto, Enrico ha cercato di formalizzare un sistema: il sistema gli permettere di mantenere sotto controllo i destini dell’imprenditoria in crisi senza doversi rapportare alla figura paterna – fondamentalmente coincidente con quella delle cavallette – imprenditori di cui annulla il campo d’azione economico. Enrico si illude di portare avanti da solo una battaglia silenziosa contro i suoi datori di lavoro per i quali si guadagna la fiducia degli imprenditori per poi convincerli a cedere: il pool agguerrito di avvocati che poi ricompra e svende al migliore offerente le industrie poco prima che falliscano non è minimamente intenzionato a sacrificare i profitti in nome dell’etica. Gli sforzi di Enrico sono vanificati dalla logica di mercato.
Valerio Mastandrea rende questo personaggio con la forza dell’immediatezza, della ragionata genuinità con cui mescola ironia e lirismo. Ecco che il personaggio Enrico capovolge ogni situazione emotivamente svantaggiosa e sfugge, svapora per poi farsi nuovamente granitico e – in maniera apparentemente paradossale – capace di levitare.
Il processo del personaggio è reso possibile solo dalla sua intima necessità di dialogo e di confronto e dalla sensibilità con cui si rapporta con Achrinoam – una intensa Hadas Yaron – fidanzata del fratello Nicola che preferisce scappare di fronte all’amore piuttosto che affrontare la diversità culturale della giovane che è israeliana. Enrico comincia ad abituarsi alla liquida Achrinoam che si impone proprio per la sua eterea e a tratti insostenibile presenza; Vladan Radovic rende la fotografia aranciata e calda nei corridoi dove i due si confrontano e Zanasi ora rende evidente lo sfocato del secondo piano ora dilata i tempi e le azioni con il rallenty, opponendo questi fotogrammi alla rapidità di alcune carrellate che riprendono il protagonista negli ampi salotti degli imprenditori: Enrico lascia tutto da parte quando affronta Achrinoam, perché con la giovane affronta anche se stesso. Con Achrinoam, addirittura, riuscirà a dire tutto senza dire niente con la forza di immagini efficacemente simboliche.
La macchina da presa inizialmente si muove sinuosa, si capovolge, le inquadrature sono molto raramente primissimi piani: Zanasi contestualizza i personaggi fino ad un certo livello, non sceglie mai di astrarli completamente dallo spazio in cui agiscono. Il regista usa spesso gli oggetti per richiamare l’attenzione dello spettatore sul senso del ruolo che le donne assumono nella storia: ad anticipare le soggettive sui volti di Achrinoam e Camilla sono sempre tende bianche animate dal vento che entra nelle camere dalle finestre aperte.
I fratelli Camilla e Filippo Lievi – una buona prova di Camilla Martini e Filippo de Carli – entrano nella vita di Enrico ed Enrico dovrà scegliere se continuare a lottare per dimenticare la colpa del padre o se finalmente reagire – anche se ormai fuori tempo -.
Il tessuto musicale formato da “In a manner of speaking” dei Nouvelle Vague e dalle composizioni originali di Niccolò Contessa de I Cani forma un ricamo emotivo insistito e si mescola omogeneamente nel sistema registico, così come l’andamento ritmico sincopato del montaggio di Ugo De Rossi garantisce una ricezione immediata per lo spettatore che non può fermarsi per domandare «Perché?», ma deve lasciare che siano i personaggi a dare o meno risposte. Molte volte i personaggi si scambiano dei «Perché?» con imbarazzo, coraggio, rabbia. Altrettante volte lo spettatore affronta risposte insoddisfacenti e si confronta con l’evidenza di quanto nulla nella vita umana, economica e sociale realmente accade fatalmente, solo perché deve accadere: Zanasi stimola così ad andare oltre il simbolo onirico e la storia che propone.
Ha grande peso nelle intenzioni degli attori il male che i padri fanno ai figli: i padri assenti, ma sempre ostinatamente presenti, i padri amorali, ma sempre pronti a pavoneggiarsi sulla pubblica piazza ostentando potere e dimenticando che al di là delle parole esistono i fatti: le parole – come “purezza” che viene abusata dal capo Bernini Senior (Teco Celio) – non sono che un involucro farneticante necessario solo a nascondere il marciume spaventosamente giustificato e poi emulato dai figli – figli come Carlo Bernini (Giuseppe Battiston) che sostiene l’abuso della “purezza” e sacrifica però se stesso -.
L’idea di purezza abusata rimanda anche ad una realtà di economismo puritano-capitalista: quello che conta è che il bilancio tra entrate ed uscite non sia mai svantaggioso per i potenti industriali e poco importa se il “male” applicato debba essere direttamente proporzionale al “bene” ricavato; solo Achrinoam candidamente metterà Enrico davanti a questa verità incontrovertibile rimandando ad una forte critica al capitalismo feroce.
Padri e figli formano un esercito di uomini fragili da cui, però, Enrico si allontana: nel suo rapporto con Filippo e Camilla prima inconsapevolmente e poi coraggiosamente gioca il ruolo del padre incoraggiante, Mastandrea è molto abile a mostrare allo spettatore la variazione nelle intenzioni senza indicarla esplicitamente.
«Sognare stanca» asserisce rassegnato Carlo Bernini, lo stesso uomo che chiede allucinato «Perché se le cose sono semplici diventano poi complicate?» e che risolve tutto nella definizione comune, banale – puritana – secondo cui la semplicità è divina.
Zanasi spiazza lo spettatore nel finale contraddicendo il luogo comune e smontandolo: la vita è un sogno costruito su strati di immagini che si mescolano secondo un disegno complesso ed articolato, sembra suggerirci nell’inquadratura finale. Chi può dire se quello skeitare in autostrada che prosegue in uno spazio bianco dove i contorni si perdono e la libertà si mette in comune tra ragazzi e uomini non sia solo la mediazione lungo la linea di confine che segna il ritorno del protagonista da un viaggio onirico o di pensiero? È necessario per essere felici, per essere tutti felici, riconoscere l’alterità e rispettarne l’entropico sviluppo nelle vite di ciascuno senza sacrificare la propria etica e libertà decisionale, questo è ciò che il complesso gioco registico disvela sicuramente.
Il film è stato proiettato in anteprima al 33° Torino Film Festival.
Written by Irene Gianeselli
Questo film mi è piaciuto. Ho letto molte recensioni ma nesuno lo ha capito come te!
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