Le métier de la critique: Solvite me e l’Orlando Furioso di Ludovico Ariosto
Mai come oggi parole come “ritornare” e “ritorno” ricordano delle maschere per striscianti intenti reazionari, uno stonato rimasuglio linguistico del tentativo di arginare il progresso, anche intellettuale, laddove tra “chi porta innanzi e chi ritorna il piede” l’uomo davvero calato nel flusso della realtà moderna sceglierebbe e sceglie senza dubbio il primo.
Si potrebbe così spiegare il rifiorire dell’eroe esploratore (non più di terre, quanto di opportunità), e in generale della letteratura “errante”. Narrazioni che fanno della percorrenza e dell’arrivo i loro aspetti nucleari e che scorgono nel ritorno un folletto spettrale da cui tenersi bene a distanza. Eppure il ritorno ha goduto momenti di gloria, anche eccezionali, molti secoli fa.
“Solvite me” ingiunge Orlando ai compagni, sul finire del 39° canto dell’Orlando Furioso di Ludovico Ariosto. Sono queste le prime parole pronunciate dal paladino dal senno ritrovato ‒ “Solvite me”: slegatemi ‒ e non sono una supplica né una preghiera patetica, bensì il secco imperativo del più coraggioso e prestante tra i cavalieri di Carlo Magno, finalmente guarito dalla follia. Subito dopo, il Poeta specifica come il suo sguardo sia tornato sereno, la sua mente di nuovo saggia e virile, il suo cuore calmo, purificato dal passato errore (quel morbo d’amore per la bella, volubile e quanto mai infedele Angelica). Ma quand’è che si era perso Orlando?
Nel canto 23° il paladino si ritrova in una selva dall’apparenza idilliaca dove la sensazione di pace, però, s’incrina non appena “vide scritti molti arbuscelli in su l’ombrosa riva”. Fatalmente gli scritti sono quelli di Angelica e Medoro, novelli innamorati e sposi che hanno inciso dichiarazioni d’amore ovunque. A questo punto la scintilla della gelosia è accesa, eppure le fiamme della follia ci metteranno un po’ ad avvolgergli l’animo. Si passa dal tentativo di autoinganno “usando fraude a se medesmo, stette ne la speranza il malcontento Orlando” con conseguente negazione della realtà, al dolore irrimediabile che fa ammutolire, fino all’approdo a quella follia in cui la distruzione è per Orlando l’uscita di emergenza da un mondo fattosi crudele. Ma se non è certo Ariosto il primo poeta a cimentarsi col tema della follia amorosa (già nei romanzi del ciclo bretone se ne trovano tracce), è probabilmente il primo autore a mettere il personaggio principale ‒ il paladino per eccellenza, l’integerrimo che ha nell’equilibrio e nel senso della giustizia alcune delle sue peculiarità più evidenti ‒ in una situazione di simile smarrimento psicologico, fisico e, soprattutto, di ruolo. Orlando, eclissando la propria ragione nel pozzo nero della matta bestialità, perde con essa anche il suo ruolo positivo di difensore della cristianità, ritrovandosi a scorrazzare nudo e senza più alcuno scopo se non quello di sopravvivere saccheggiando e colpendo chi gli capita a tiro. Solo la provvidenziale concessione divina porrà rimedio a quest’impasse narrativa. Ecco quindi comparire Astolfo, compagno d’armi di Orlando, che viene scortato da Giovanni Evangelista fin sulla Luna dove “la medicina che può saggio rendere Orlando, là dentro si serra”. E laddove il viaggio è la promessa della guarigione, il ritorno ne è la naturale premessa. Un ritorno fisico quello di Astolfo, che portando con sé l’ampolla contenente il senno del paladino francese permette un secondo ritorno, ben più cruciale per lo svolgersi dell’intreccio: quello dell’animo di Orlando dal limbo dell’irragionevolezza cui Amore lo aveva costretto. Se la perdita della capacità intellettiva equivale alla perdita d’influsso sulla propria esistenza, è evidente che follia diventa sinonimo di morte. Il folle è un vascello alla deriva in balia delle tempeste occasionali, a maggior ragione nel periodo rinascimentale.
Così, l’uomo che torna dal suo viaggio di disperazione è un uomo che ritorna alla vita, e nel caso di Orlando sarà più che altro un ritorno alla guerra, al ruolo centrale nella difesa della cristianità, della giustizia, della fede.
Passati più di quattro secoli, nei suoi Frammenti di un discorso amoroso Roland Barthes scriverà: “Da cent’anni a questa parte si ritiene che la follia (letteraria) consista in questo: io è un altro, ovvero la follia è un’esperienza di spersonalizzazione. Il pazzo non è un originale, bensì un individuo tagliato fuori dalla società, che non socializza […]”. Nonostante il limite temporale individuato da Barthes, la sua definizione di follia letteraria non è poi così lontana da quella che colpisce Orlando nel suo momento “furioso”, tant’è che il paladino ritrovato stende sul suo passato recente come un velo di lontananza che subito gli permette di archiviarlo. Tuttavia Barthes si riferisce al contemporaneo o quasi, e in questo presente privo d’incanti non può comparire alcun santo evangelista a farsi carico di un allunaggio, seppur allettante, per recuperare il senno all’amico sventurato e nemmeno, forse, la possibilità di recuperarlo questo senno.
Un “ritorno del senno” che è chimera degli psichiatri e un male – la follia – che non è più il fiume dagli argini compatti che scivola nell’abisso, bensì un flusso disperso in una moltitudine di rigagnoli, derivazioni più o meno studiate di quella patologia che oggi va sotto il nome di depressione. Ma se questa malattia non sappiamo nemmeno circoscriverla definitivamente, come possono gli scrittori contemporanei confrontarsi con essa, interpretarla, tracciare quelle linee che poi, conscio o meno, il lettore avrà facoltà d’interiorizzare?
Continua Barthes: “Il soggetto prova un sentimento di compassione nei riguardi dell’oggetto amato ogni volta che lo vede, lo sente o lo sa infelice o minacciato da qualcosa che è estraneo alla relazione amorosa in sé […] Se l’altro soffre di allucinazioni, se ha paura di diventare pazzo, io stesso dovrei soffrire di allucinazioni, io stesso dovrei essere pazzo”. Ed è proprio la compassione (in senso etimologico, il compartecipare alla stessa sorte) la chiave usata da Jeffrey Eugenides ne La Trama del matrimonio per entrare nel labirinto rovesciato di una mente oltraggiata dalla malattia, scombinata e imprevedibile. Ma perché qualcuno dovrebbe voler entrare in un posto tanto angusto? Soprattutto, è sicuro di uscirne, di poter ritornare alla superficie e respirare l’aria salubre della “normalità”? Alla prima domanda Barthes ed Eugenides probabilmente risponderebbero: per amore!
Mentre per tentare di risolvere il secondo enigma bisogna prendersi la briga di spulciare riga per riga il romanzo dell’autore americano, fino a raggiungere un’avventurosa quanto inquietante presa di posizione: no, non si è mai sicuri, ma ciò che spinge l’innamorato a salire su di un vascello mezzo marcio non è la certezza, bensì l’ambizione di riuscire a condurre l’amato in un porto sicuro dove, magari, trovare il posto giusto per condividere un futuro sereno. L’ambizione di un salvatore, insomma, ed è proprio questa a indurre la protagonista femminile Madeleine (dolci rimembranze proustiane, ma anche e di nuovo follia latente, con quel nomignolo così scontato: Mad ‒ pazza) a scommettere sul cavallo perdente, Leonard. Allora, forse, non sarà troppo azzardato affermare che Astolfo è per Orlando ciò che Madeleine è per Leonard: spinti da motivazioni diverse, perseguono scopi simili: intraprendere un viaggio (sulla Luna o nell’abisso) per riportare sulla Terra la ragione, ritornando alla vita l’amico o l’amato.
Tuttavia, qualcosa è cambiato e oltre al contesto letterario a essere mutata in maniera sostanziale è la conoscenza delle patologie psichiche, con la conseguente impossibilità di narrare alcuna esperienza di guarigione provvidenziale.
È lo stesso Leonard a mettere in guardia Mad circa le possibilità di riuscita del suo novecentesco allunaggio: “Lascia che ti spieghi cosa succede quando una persona è clinicamente depressa. Succede che il cervello invia un segnale che dice: sto morendo. Il cervello depresso invia questo segnale e il corpo lo riceve, e dopo un po’ anche il corpo è convinto di morire. E allora smette di funzionare. Per questo è fisicamente dolorosa. Poiché il cervello pensa di morire, anche il corpo lo pensa, e il cervello lo registra e vanno avanti e indietro come in un feedback infinito”. Non c’è ira in questa esposizione, né Leonard arriverà mai a somigliare ad Orlando quando si accanisce con l’ambiente e le persone che lo circondano. Casomai, una lucida riesamina della malattia, una “spersonalizzazione” momentanea che gli permette di tentare il salvataggio della sua aspirante salvatrice. E infatti, poco più avanti le ribadirà che: “In una fase critica è più facile sopravvivere come una cellula singola”, profetizzando a Madeleine l’amaro finale.
Quel Solvite me con cui Orlando si rivolgeva ai ritrovati compagni d’armi sanciva la conclusione del viaggio, il ritorno del folle nei ranghi della normalità e premetteva un destino grandioso all’orizzonte. Oggi invece, di fronte alla follia, il somnium non può che schiantarsi e al salvatore – fosse Astolfo sulla Luna, piuttosto che Madeleine nel New Jersey – non resta che l’amaro della disillusione in bocca e una scia di ferite da leccare. Intanto la promessa contenuta nel viaggio (ti salverò, eccome se lo farò) rimane a rotolare tra i cocci, e il coraggio di constatarne il fallimento ce l’ha solo Leonard.
Leonard che ha i tratti dell’Orlando ritrovato quando, lucidissimo nel richiamare la prassi con cui i musulmani sono soliti porre fine al proprio matrimonio, scioglie il legame con Madeleine dicendole: “Io divorzio da te, io divorzio da te, io divorzio da te”. Leonard che imbriglia il male per pochi istanti fondamentali e sentenzia la fine di quel viaggio d’amore dagli intenti redentori, mentre ad aspettarlo più che un destino grandioso ci sono il paese natale, i boschi dell’Oregon, la compagnia di un innominato amico di liceo, come a dire che per ritrovarsi bisogna far ritorno dove tutto è iniziato, solo con molte più fatiche sulle spalle.
Come a ribadire che la lungimiranza del ritornare il piede, oggi, ce l’hanno in pochi uomini, pazzi per giunta.
Written by Jessica Puliero