“La voce di Pasolini” di Matteo Cerami e Mario Sesti, la storia di tutti noi raccontata dalle parole del poeta corsaro
A volte basta il suono di una voce per far schiudere un universo. E con esso milioni di immagini rinascono, scorrono davanti agli occhi in una panoramica spesso in bianco e nero, perché i ricordi sono così veloci che i colori non riescono a stargli dietro. Foto che si uniscono a sillabe, che creano una perfezione acerba e lontana negli anni e ci mostrano dei ritratti che ci sembra di riconoscere. Perché sono i nostri.

Chiedersi se tutto questo sia merito più del tono profondo di Toni Servillo o più dei testi letti da lui e scritti da Pier Paolo Pasolini nel documentario “La voce di Pasolini” (2006) è inutile, perché entrambi contribuiscono alla pari a rendere il tutto un’immersione autentica in un’Italia così diversa da quella di oggi da esserle identica nei volti, ma forse non nell’anima.
Ma non è un rivivere la poetica e il cinema del poeta corsaro, non solo almeno, perché le sue parole fanno solo da ponte tra un ieri grigio, povero e speranzoso e un oggi colorato, benestante ma disilluso.
Diretto da Matteo Cerami e Mario Sesti, che hanno curato anche il volumetto “La voce di Pasolini: i testi” insieme al DVD edito da Feltrinelli Real Cinema, insieme a Graziella Chiarcossi, questo film si distacca dai soliti che ripercorrono l’esistenza di questo scrittore e regista emblematico e affronta, invece, un viaggio tra il bianco e nero e i colori della nostra Penisola che, durante la seconda metà del ‘900, si avviava al proprio cambiamento.
Il tutto attraverso, questo sì, i versi e la prosa di Pasolini, tra il suo amore per il popolo e l’odio per quella borghesia da cui, paradossalmente, lui stesso arrivava: nessuna retorica se non la passione per una classe sociale di persone rifiutate dal sistema, a cui egli diede parola nei propri romanzi.
Se la “colonna sonora” è quindi la voce di Toni Servillo, lo sfondo sono immagini selezionate con cura da Cerami e Sesti, estrapolate da archivi pubblici, fotografie, filmini familiari e spezzoni di cinema, che ripercorrono le tappe del percorso pasoliniano e di milioni di italiani, dalle campagne friulane in cui trascorse parecchi anni fino alle borgate romane, teatro di quel sottoproletariato sfruttato e umiliato e amaramente descritto nei libri “Ragazzi di vita” e “Una vita violenta” e nel film “Accattone”.
Profondo anche il legame che univa Pasolini al dialetto, sua radice mai completamente spezzata con il Friuli materno e che viene ripreso nello stesso documentario (con una pronuncia tristemente oscena da parte di Graziella Chiarcossi) e con le periferie degradate di Roma, dove l’italiano svanisce per far spazio a gerghi e linguaggi propri degli abitanti del posto.

Un ruolo importante nell’opera viene dedicato anche a Porno-Teo-Kolossal, film che doveva essere diretto e sceneggiato dall’artista natio di Bologna, “l’ultimo” della sua carriera da regista come sosteneva lui stesso dopo la realizzazione di “Salò o le 120 giornate di Sodoma”, rimasto però incompiuto a causa della prematura morte nel 1975. Intitolato all’inizio “Re magio randagio (e il suo schiavo schiavetto)”, sarebbe stato interpretato da Eduardo de Filippo e avrebbe toccato temi scabrosi per l’epoca (ma anche per oggi) come l’amore omosessuale e la libertà sessuale.
La pecca che si può trovare in questo documentario è l’eccesiva lentezza di alcune parti, che interrompono lo scorrere del tempo per concentrare forse eccessivamente l’attenzione su dettagli e determinate immagini.
Ciò nonostante “La voce di Pasolini” riesce a racchiudere e a trasmettere allo spettatore frammenti di tempo chiusi tra le pieghe della Storia, che se lasciati liberi riflettono un passato comune a tutti noi. Doloroso, triste magari, anche spensierato, ma sicuramente nostro.
Written by Timothy Dissegna