“Mein kleines Labyrinth” di Maurizio Turchet: il mito del labirinto tra creatività e trasformazione
«Un fuggiasco non si nasconde in un labirinto. Non innalza un labirinto su un luogo alto della costa, un labirinto cremisi che i marinai avvistano da lontano. Non ha bisogno di erigere un labirinto, perché l’Universo già lo è.» Abenjacàn il Bojarì, J. L. Borges
Maurizio Turchet studia “la trasformazione ed il riequilibrio di micro e macro sistemi nella crescita progressiva della consapevolezza” ed ha elaborato il “metodo di visualizzazione e canalizzazione abbinato alla creatività” (QUART).
Artista multimediale, fotografo e video maker si avventura tra le pieghe dell’Universo con il video “Mein kleines Labyrinth“ – prodotto da Beatrice Paola Ruffini – in un viaggio che si inerpica per sentieri ancestrali ed onirici.
La ricerca di Turchet si sviluppa a partire dal mito mesopotamico secondo cui la dea Ishtar, rifiutata dall’eroe Gilgamesh e decisa a punirlo, avrebbe inviato sulla terra il Toro Celeste, portatore di carestia per la città di Uruk.
Proseguendo nel solco del mito il regista ne affronta l’evoluzione greca e rielabora la figura della ninfa Io – una delle molteplici amanti di Zeus trasformata dal dio in vacca per placare l’ira della moglie Era – e quella di Pasifae, sposa di Minosse e madre del Minotauro che si era unita al sacro Toro Bianco inviato da Poseidone perché gli venisse sacrificato.
La figura del toro diventa topica: rappresenta da un lato la forza animalesca e virile, e ciò si desume dall’episodio in cui l’eroe mortale Gilgamesh prende su di sé questa forza per abbattere la bestia, dall’altro la fertilità e la femminilità: anche i costumi rimandano spesso all’immagine per cui le corna dell’animale ricordano la forma della luna e della culla a cui si aggrappa la vita.
Il toro accoglie in sé la dicotomia uno-doppio, umano-bestiale, maschile-femminile che disvela la necessità tutta umana di raggiungere il superiore, il divino.
Ma cos’è più divino di ciò che da umano è trasfigurato in bestiale e primordiale, di ciò che da umano – e quindi condizionato ad essere razionale – ritorna ad appropriarsi di una forza viscerale e dell’istinto? Cos’è più divino di ciò che divino lo è già, ma viene anche contaminato dall’umano?
Ecco che al centro del labirinto il Minotauro attende l’uomo che ha saputo sfidare l’Universo.
Ma come si può raggiungere il centro del labirinto?
Quando pensiamo all’opera di Dedalo l’immagine è quella di una costruzione squadrata dal percorso spigoloso, eppure fondamentalmente lineare: è la nostra coscienza occidentale a riportarci ad uno schematismo materico, ad un rigore metodologico quasi esasperante nel momento in cui affrontiamo una struttura – che sia fisica o ideologica è un dettaglio – fuori dall’ordinario; ma non si può pensare di seguire il progetto di Turchet secondo le categorie, gli schemi interpretativi occidentali: è necessario guardare i singoli fotogrammi di “Mein Kleines Labyrinth” secondo la logica della Sincronicità e considerare il momento presente nella sua complessità, perché alla formazione di “quel” momento concorre ogni cosa, la totalità degli elementi, l’Universo.
Il montaggio di “Mein kleines Labyrinth” all’apparenza geometrico è in realtà profondamente sincronico, fatto di scene essenziali cariche di una forte valenza simbolica: ricerca e lotta perenne sono i pilastri del progetto di Turchet evidenti nei movimenti dell’indecifrabile e armoniosa Io (Maria Giambona), come nei gesti nervosi e sensuali di Pasifae (Sara Ercoli).
Tutta la tensione che si sviluppa sin dalle prime scene si concentra poi nella corrida tra l’Ercole – Pasifae (Sara Ercoli) seduttore e dominatore ed il Toro Bianco – un Tommaso Ragno che con la potente ed insieme elegante fisicità del corpo riempie lo spazio – a tratti disarmante per l’ingenuità con cui coraggiosamente si accosta al suo destino. Una corrida che preconizza la figura enigmatica del Minotauro (Michele Ferra), dell’essere che accoglie in sé le due nature, le due individualità: l’umana e la divina.
La forza e la dolcezza, l’equilibrio che si muovono nello sguardo del Toro Bianco ci feriscono come il senso stesso della corrida ed il pensiero di un sacrificio necessario per il raggiungimento della completezza.
Completezza che però non può ridursi ad unicità: il perturbante percorso proposto da Turchet sfiora il tema del doppio in senso lato; il risultato è una visione in alcuni momenti oscura, in altri quasi abbagliante della nostra vita che è una lotta perenne tra delirio e controllo, tra bisogno e volontà, tra dovere e volere, tra desiderio e morale.
E questo rapido movimento di luci ed ombre, tra gli sguardi e i gesti degli attori, senza scadere nella retorica, mostra la forza della rivalità che serpeggia perfino nel rapporto tra uomo e donna, in una perversione maledetta che è prevaricazione – come se “amore” debba obbligatoriamente significare che uno dei due possa solo votarsi all’annullamento nell’altro -.
Partire dal mito sumerico permette allo spettatore di avventurarsi in un parallelismo con il presente: il rischio che il futuro sia solo la vendetta di un dio offeso dall’incapacità dell’uomo di rassegnarsi alla sua limitatezza pervade da millenni la storia insinuandosi nelle pieghe della coscienza collettiva. Così, mentre ci aggiriamo inquieti per le strade delle nostre metropoli (i nostri cari, piccoli labirinti statici) elaboriamo risposte, spesso sconclusionate, altre volte votate piuttosto all’oblio.
Il contrasto continuo del microcosmo apparentemente contraddittorio che è “Mein kleines Labyrinth“ prende luogo nella Germania, nei suoi rumori, nelle sue luci algide e gelate; da Kunow (Brandeburg, Abaco Space), tra le installazioni di Giampaolo di Cocco, a Berlino (Mitte, Tiergarten, Hansa Viertel, Spree Bogen), metropoli moderna: il labirinto di oggi è la prigione globale della vicinanza fatta di assenza, dei grandi spazi che si riempiono di distanze insormontabili, dei nuovi mezzi di comunicazione sempre più dispersivi il cui centro è stato assorbito dall’uomo che lo ha dislocato nelle periferie del suo pensiero.
Perciò è necessario ripartire dal mito, ripartire dalle figure, come quella di Gilgamesh per ripensare all'”esserci” dell’uomo che, fisiologicamente, implica anche il suo non-esserci: morire, non è questo il sacrificio che l’uomo offre per espiare la vita stessa?
Al labirinto viene così restituita la funzione originaria: è ancora la scelta dell’illimitato che limita l’umanità e la provoca; cosa davvero possiamo permetterci di raggiungere? Quale gioia ci è concessa davvero se non quella di scoprire il paradigma necessario e perfetto per affrontare il disordine e dominarlo senza placarne la furia creativa, l’unica furia per cui i poeti sono felici di morire?
Adesso il caos è temuto e lasciato inesplorato perché allontanarsi significa soltanto dimenticare, ma nel mito il disordine e il capriccio del Destino erano necessari e la fuga dell’uomo o la sua ribellione implicavano la ricostruzione di un nuovo equilibrio: per questo, sembra suggerirci Turchet, i nostri piccoli e cari labirinti metropolitani possono essere reinterpretati, possono stimolare se messi in relazione alle creazioni geniali di Dedalo, allo sforzo di Eracle, alla perseveranza di Io.
Per non cadere negli eccessi dell’idealismo tardo romantico o del materialismo, l’arte intesa come sforzo creativo puro può ancora darci la forza per affrontare l’universo: se la lotta diventa momento creativo, se nella lotta si sceglie di mettere in comune idee ed esperienze, se come esperienza specifica quella cinematografica è capace di raccogliere il momento e renderlo accessibile a tutti, allora l’uomo può finalmente sentire in sé quel quid divino, senza nemmeno peccare troppo di superbia, nella sua fuga non ha più bisogno di costruire altri labirinti, affascinato – forse anche piacevolmente vinto – dall’intrigo dell’intelligenza umana che si affaccia all’infinito.
In questa ardita sincronia polifonica Turchet è il demiurgo di una rinnovata mitopoiesi: l’essenza del movimento è l’atto che si ricompone nella forma.
La ricerca che Maurizio Turchet sperimenta nella costruzione del suo “Mein kleines Labyrinth” è la forma come mutamento.
Written by Irene Gianeselli
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