“Il medico tedesco”, romanzo di Lucía Puenzo: il diavolo è nei dettagli

Argentina, 1959. Alla guida della Chevrolet che sta lasciando Buenos Aires c’è un uomo. Dimostra poco meno di cinquant’anni e di quell’età ha il portamento signorile. I suoi gesti dosati, ben calibrati, potrebbero essere quelli di un aristocratico. O di un chirurgo. Ha capelli e occhi scuri, ma il suo volto ha ben poco che a spartire con i tratti tipici della zona. È ariano. Della zona parla la lingua, lo spagnolo, con correttezza e precisione, ma con una sfumatura di accento tedesco. Avete indovinato chi è?

Il medico tedesco

Si è detto e scritto molto dell’“esodo” di nazisti “blasonati” in Sudamerica dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. Il più famoso è probabilmente Adolf Eichmann, ingranaggio fondamentale nel funzionamento di Auschwitz, passato alla storia come emblema di quella banalità del male che Hannah Arendt postulò proprio osservando il processo istituito per lui.

Si era in Israele, nel 1961, dove Eichmann era stato condotto dopo essere stato rapito dal Mossad in Argentina. Sì, proprio in Argentina. Ma non è di Eichmann che Il medico tedesco di Puenzo parla.

Alla guida della Chevrolet c’è Josef Mengele. Sì, proprio lui: l’emblema del medico nazista. Non è passato alla storia per la sua banalità, ma per il male, quello sì. C’è chi se lo spiega immaginando uno spietato e distaccato sperimentatore, privo di ogni empatia nei confronti delle proprie cavie umane; chi ricorre a un carattere sadico-morboso per dare un senso al suo, a volte grottesco e brutale, operato.

Puenzo, ne Il medico tedesco, complica il quadro: il suo Mengele è un essere umano e, da tale, più sfaccettato di un accecante tabù. Non banale, ma neanche caricaturale. Non manca di empatia più di un qualsiasi affidabile chirurgo, con la postilla che il suo parco di cavie ideale include la fauna umana. Non è né più né meno morboso di un qualsiasi carattere devotamente appassionato a una materia. Non è che un esemplare umano tra tanti, insomma, con la differenza che lui è Mengele. E, essendo Mengele, sa di dover scappare dal Mossad.

Poi c’è Lilith. Lilith che Josef incontra durante la sua fuga e a cui decide che non rinuncerà. Lilith che è una ragazzina ma sembra una bambina, anzi, una bambolina. Lilith che è una ragazzina in miniatura perché affetta da una forma di nanismo che distorce solo lievemente le sue proporzioni. Ma, soprattutto, Lilith che è ariana nonostante i suoi genitori non lo siano. Lilith che è un miracolo. Lilith che nel suo grottesco è perfetta.

C’è una sottile ironia nel romanzo di Puenzo: Lilith – che paga a caro prezzo lo scherzo che la Natura le ha fatto, isolata dai coetanei a causa della sua difformità – troverà solo in Mengele un amico. Un amico sui generis, forse, considerando che Josef la contempla con la curiosità dello scienziato. Ma del medico tedesco, per come Puenzo lo raffigura, si può dire tutto tranne che non sia genuino: i suoi sentimenti non sono insinceri, semplicemente sono forse antropologicamente rari. Sa che Lilith è intelligente abbastanza da intuirlo – intuire chi sia veramente, questo fuggitivo, che cosa pensi e voglia – e con piacere si fa intuire.

Lucía Puenzo

Intuire, ripeto, perché l’intero romanzo di Puenzo sembra essere un macrocosmo della riservatezza di Mengele: la sua forza sta nelle sottigliezze, nelle sfumature, nelle minuscole differenze che distinguono il suo Mengele da tutti gli altri personaggi, Mengele da un qualsiasi altro essere umano.  Il male, se ancora si vuole credere a un male assoluto che dimora nell’essere umano, è ben lontano dall’essere chiaro è riconoscibile; è piuttosto una virgola, uno specchio spostato di pochi gradi sul proprio asse, un’illusione ottica inconsapevole, una frase che cambia significato per una virgola omessa.

Per un libro elegante come una sottigliezza, Puenzo opta per una prosa perfettamente abbinata: semplice senza essere meccanica o didascalica o povera, qui e lì impreziosita da passaggi in cui prosa e contenuto divengono due facce inscindibili della stessa medaglia. La scrittrice sembra conoscere bene il valore delle parole, il loro peso, e sa disporle accuratamente in frasi che – nella loro brevità – riescono a cogliere la particolarità di un personaggio, i suoi numeri primi, che ci passa sotto agli occhi con la stessa velocità con cui a volte il gesto di una persona ci rivela all’istante una sfaccettatura del suo animo.

L’amore è un atto che non si può compiere senza un complice, spiega uno dei personaggi.

A voi scoprire chi, e soprattutto che cosa queste parole implichino.
Lucía Puenzo  (Buenos Aires, 1976) è scrittrice, sceneggiatrice e regista. Il suo film XXY ha ricevuto il Premio Settimana Internazionale della Critica al Festival di Cannes nel 2007. Dal romanzo Il medico tedesco ha tratto il film The German Doctor – Wakolda, che ha ottenuto il premio selezione ufficiale Un Certain Regard al Festival di Cannes.

 

 

Written by Serena Bertogliatti

 

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