Il “Re Lear” di Michele Placido: la risposta del Teatro al peso di questo tempo triste
Il “Re Lear” ha alle spalle una tournée iniziata nel 2012 nel suggestivo Teatro Romano a Verona nell’ambito dell’Estate Teatrale Veronese. Lo spettacolo interpretato da Michele Placido che ne ha anche firmato la regia con Francesco Manetti, è in scena il 13 e 14 febbraio 2015 al Teatro Petruzzelli di Bari, il 16 e 17 febbraio a Brindisi, poi il 18 e il 19 a Taranto, dal 20 al 22 a Barletta. Dal 24 febbraio all’8 marzo sarà al Piccolo Teatro di Milano. Il 10 e l’11 marzo al Teatro Sociale di Como.
Quando uno spettatore scopre che l’arte sa sempre resistere nonostante i tagli alla cultura, nonostante la complessità del periodo che stiamo vivendo, nonostante la trasformazione sociale e culturale in atto, allora per quello spettatore sarà sempre un buon momento, un momento che saprà durare nel tempo proprio per la sua intensità.
Il King Lear che Michele Placido porta in scena restituisce il Teatro al Teatro: si percepisce il conflitto tra attore e personaggio o, meglio, quella continua ricerca di conciliazione tra metodo per raggiungere l’in-finito e liberazione dalla finitudine materica che è il gioco del Teatro nelle sfumature delle luci taglienti di Giuseppe Filipponio, nei suoni assordanti ma non casuali per amplificare la potenza di un atto ben determinato, nelle musiche originali di Luca D’Alberto, nell’ansia di una risoluzione della vicenda o di una catarsi.
Essenziale è il “ruolo” della scenografia di Carmelo Giammello: la scena è subito svelata, nessun sipario a coprire lo spazio scenico, proprio come negli antichi teatri greci e romani. La sede degli esclusi, degli emarginati, degli strazianti monologhi di Edgard – un ottimo Francesco Bonomo capace di esaltare il senso profondo del suo personaggio attraverso la plasticità del corpo che assume la duttilità della cartapesta – è l’insieme di eminenti macerie, macerie di poteri rotolati come una grande corona rovesciata, come l’aquila imperiale, come il capo bendato della statua di Stalin, polvere e cocci acuminati. Quadri ed un baule per il rifugio del Fool.
Il ritmo serrato e incalzante – cui concorre la traduzione rispettosa e coerente dello stesso Placido con Marica Gungui – assorbe come il vorticare dei coriandoli sottili a simulare la pioggia della tempesta. Eppure lo spettatore rimane sempre presente a se stesso, partecipe allo straniamento, al gioco.
Spesso succede che Shakespeare conduca sapientemente due plots paralleli. Il Bardo presenta un Re Lear abdicante, pronto a rinunciare al potere per donarlo alle figlie, purché queste gli dimostrino il valore del loro amore: se Goneril e Regan si mostrano abili nel celare dietro l’arte della dialettica il proprio compiacimento per la fine del “vecchio” padre che “gattona verso la morte”, Cordelia – interpretata con dolcezza ed eleganza da Federica Vincenti – rifiuta di affidare alle parole la forza del suo amore e del vincolo filiale. Nella medesima corte Edmund, il figlio illegittimo del Conte Gloucester (Gigi Angelillo), trama per eliminare in un solo colpo il padre e il fratello Edgard, e il piano riesce: ancora una volta sono le parole di una lettera che lui stesso ha scritto ad annullare l’amore ed il rispetto reciproco tra Gloucester ed Edgard che, accusato di voler uccidere il padre, è costretto a mascherarsi da mendicante. Da questo momento Edgard sarà Tom, come Lear attraverserà la follia che atterrisce, la follia terribile di chi si sente rifiutato, sostituito e vilmente abbandonato ad un destino indegno.
Sicuramente Michele Placido ha saputo rendere la tragedia mostrando come le forti tensioni che la animano si proiettino nella nostra quotidianità, fatta di scontri atroci e violenti che, oltre le vicende prettamente familiari, coinvolgono la collettività: la violenza delle due sorelle accomunate dalla smania di potere, l’ammiccare lascivo di Regan (Maria Chiara Augenti) e Goneril (Marta Nuti) che si lasciano corrompere e trasformare fino a competere indegnamente per lo stesso uomo, proprio per quel viscido e sghignazzante Edmund – un Giulio Forges Davanzati intenso – bene rappresentano il declino dei poteri subalterni che, essendo basati sul fallimento dei padri, finiscono per implodere nella propria corruzione. Senza scampo. Seguendo la trasformazione delle due donne, sempre più degenerate, sempre più abili barattiere di parole che non hanno più alcun peso, gli abiti – realizzati da Daniele Gelsi – si fanno sempre più moderni, come quelli delle eroine dei videogiochi: borchiati, di pelle scura e liscia. E così dopo avere sopportato la tempesta, rinnegato dalle figlie, accompagnato soltanto dal fedele Conte di Kent (Francesco Biscione) – costretto a sua volta a mascherarsi perché bandito dallo stesso Re per avere difeso Cordelia – e dal Matto – un Brenno Placido frizzante e sibillino – Lear si spoglia dei suoi abiti regali, vaga per il Paese come un clochard di oggi, coperto da un poncho giallo paglierino, privo dell’abito rosso a cui aveva delegato la sanguigna autorità che riteneva di possedere.
I monologhi e i dialoghi con l’ormai cieco Gloucester sono momenti in cui Michele Placido “gioca” sapientemente il suo ruolo: l’amalgama perfettamente riuscita tra la forza del messaggio shakespeareano e la leggerezza, tutta sudata, dell’intera compagnia è davvero coinvolgente.
Topica nell’economia della tragedia è la scena che vede protagonisti assoluti un figlio che si è finto folle (Edgard) ed un padre che, per avere difeso patria e re, è stato accecato (Gloucester): è questo un momento di una tenerezza struggente, che colpisce per la sua intensità e per la forte valenza metaforica; non solo, Shakespeare ribadisce, come spesso fa nelle sue opere (nel monologo di Macbeth «La vita non è altro che un’ombra vagante: un povero attore che si pavoneggia e si agita per la sua ora sul palcoscenico, e poi tace; è un racconto recitato da un idiota gonfio di suono e di furia che non significa nulla»), il senso profondo dell’atto teatrale: Edgard è il “personaggio” – guida dell'”Attore” Gloucester che il mondo ha accecato con la sua atroce blasfemia nei confronti della vita. In cerca di un significato non resta che farsi guidare dal coraggio dell’espressione.
Perché se Cordelia giace deposta su un tavolaccio gelido, morta dopo avere cantato a piena voce un Hallelujah cristallino – la canzone di Leonard Cohen è uno dei riferimenti postmoderni presenti nella messinscena -, se lo stesso Lear, che ha usurpato la sua vita, si piega sul bordo del palco, proprio dal bordo del palco Edgard si volta a guardare indietro per pronunciare parole nuovamente e inesorabilmente piene di senso: «Noi dobbiamo accettare il peso di questo tempo triste. Dire ciò che sentiamo e non ciò che conviene dire. I più vecchi hanno sopportato di più: noi che siamo giovani non vedremo tanto né tanto a lungo vivremo».
Written by Irene Gianeselli
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