“Hannibal”: cannibalismo, vampirismo e altre riflessioni sul vegetarismo
“Before we begin, you must all be warned. Nothing here is vegetarian. Bon appétit.”
La seconda stagione della serie sul cannibale per eccellenza è finita a maggio. Mentre i fan fedeli attendono con trepidazione che la terza stagione venga servita, chi non l’ha ancora degustata sentirà parlare di come Bryan Fuller abbia realizzato una serie TV che nulla ha da invidiare, per qualità, a un film: una trama ben congegnata, dosata goccia dopo goccia per mantenere alta la suspense, una cura del dettaglio estetico degna di un personaggio ossessivamente elegante come Hannibal Lecter e – ingrediente essenziale – personaggi ben caratterizzati portati in scena da attori che saprebbero rendere Hannibal coinvolgente anche se l’intera serie si svolgesse in una stanza vuota.
È proprio grazie alla gestione dei due protagonisti – Hannibal the Cannibal e Will Graham, profiler che lavora per l’FBI – che la serie rientra in pieno nella tradizione dei thriller che catapultano nella mente del “mostro”. Il mostro è Hannibal, ça va sans dire, ma neanche Graham è un perfetto esempio di paladino al servizio del bene comune. La sacra missione di riportare la giustizia sulla terra, che l’iper-empatico Graham si carica sulle spalle un po’ goffamente, sembra passare in secondo piano di episodio in episodio. Al suo posto, emerge un diverso tipo di ossessione: quella che lega protagonista e antagonista indissolubilmente in una gioco tra gatto e topo in cui non si capisce chi, in definitiva, stia dando la caccia a chi.
Ma c’è un’altra ambiguità, ben più innovativa, che diventa protagonista della serie: Hannibal the Cannibal, il male ontologico incarnato, è veramente così tanto ripugnante?
Il fascino del male – e il dottor Lecter, impersonato da Mads Mikkelsen, è l’incarnazione di un certo raffinato e tutto europeo fascino – in questa serie TV non viene controbilanciato da un protagonista che incarni il bene. Anzi.
Graham diventa l’ospite d’onore delle succulente cene che Hannibal cucina, con amore e dedizione, seguendo un ricettario che dell’essere umano – come del maiale – non butta nulla. La raffinatezza della sua arte culinaria ci viene presentata con i nomi stessi degli episodi: cucina francese per la prima serie (Apéritif, Amuse-Bouche, Potage, etc…), giapponese per la seconda (Kaiseki, Sakizuke, Hassun, etc…), con una regia che batte tutti i reality shows culinari per acquolina in bocca indotta. A meno che non siate vegetariani, ovviamente.
E qui arriviamo noi, spettatori, che non siamo (almeno statisticamente) né psicopatici manipolatori né profilers dell’FBI con problemi di iper-empatia, ma che viviamo in un mondo sempre più diviso da una lotta intestina: entusiasti mangiatori di carne versus tutte le sfumature del vegetarismo e del veganismo. La serie stessa si apre tracciando un parallelo più che esplicito: Abigail, che irrompe sulla scena come vittima, appare in un flashback in cui il padre la sprona a cacciare un cervo, facendole così vivere la propria natura di carnefice.
Il confine tra umano e bestia, tra cannibale e carnivoro, si fa labile. In Hannibal – perlomeno fino alla seconda stagione – l’ago della bilancia traballa troppo, scosso ogni volta che una vittima si rivela (almeno potenzialmente) un carnefice, che una preda si scopre essere predatrice a sua volta. Nessuna conclusione, nessuna morale. Dopotutto, l’ambiguità è uno dei punti di forza di questa serie TV, in cui il cattivo per eccellenza accoglie amorevolmente la propria nemesi con intingoli a base di carne umana.
Mi è poi capitato, con in testa queste riflessioni irrisolte, di guardare per caso una puntata di The Vampire Diaries, serie che nulla ha a che fare con Hannibal. Temi diversi, pubblico diverso, diversi Leitmotiven. Senonché il vampiro amato dalla protagonista, Stefan Salvatore, ricade in pieno in uno stereotipo tanto vecchio e conosciuto da risultare ormai banale: il vampiro che, in nome della propria umanità (d’animo), smette di nutrirsi di sangue umano e opta per il sangue delle bestie. Non perché sia più buono, anzi: la sensualità del morso del vampiro si rivela tutta nel suo essere destinato a vittime umane. La passione sta lì: nel succhiare l’altrui vita. Ma ripiegare sul sangue delle bestie non solo fa bene alla coscienza, ma anche alla persona: il sangue umano è una tentazione che risveglia la bestia nel vampiro.
Stefan Salvatore non è che l’ennesima variazione di un dilemma trovato in altri vampiri fittizi. C’è Louis de Pointe du Lac, protagonista di Intervista con il vampiro, e con ciò progenitore di questa stirpe di vampiri perennemente colti da una malinconia esistenziale dovuta al dover accettare che la loro natura li rende dei parassiti, se non degli assassini, a discapito degli esseri umani. Louis risolve, similmente a Salvatore, ripiegando sulle bestie. Una soluzione di comodo, un male minore: il parallelo umano-bestia, accomunati dall’essere il cibo naturale di un’altra specie (vampiri-umani) c’è, ma è solo accennato e non riflette il dilemma esistenziale del predatore che, per sopravvivere, deve necessariamente nutrirsi di un essere vivente con cui empatizza.
È stato in Twilight che ho invece trovato l’evoluzione ulteriore di questo parallelo vampiro-cannibale: la famiglia Cullen, che si nutre solo di sangue di bestie, nel far ciò si definisce “vegetariana”.
Sembrerebbe un uso improprio della parola “vegetariano”, ma lo è solo nella denotazione (il significato “oggettivo”): nella sua connotazione (la carica psicologica associata alla parola) è estremamente precisa. Se applichiamo la visione tutta antropocentrica che gerarchizza, anche a livello di sacralità, le vite in base a chi mangia chi (il vampiro mangia l’umano che mangia la bestia che mangia il vegetale), è perfettamente lecito per un vampiro sentirsi la coscienza a posto nel momento in cui si nutre di una specie non di uno, ma due gradini inferiore, esattamente come fanno gli esseri umani che abbracciano il vegetarismo per motivi etici che riguardano il singolo animale mangiato: l’umano si nutre di vegetali, il vampiro si nutre di bestie. Semplice e glaciale come un’operazione matematica. In ambo i casi, il predatore deve fare meno i conti con la propria empatia: così come il vampiro empatizza meno con le bestie che con gli umani, l’umano empatizza meno con i vegetali che con le bestie.
E torniamo a Hannibal, in cui l’empatia è il motore che fa procedere questa trama fatta di immedesimazioni. Abigail, che si trova piombata in un mondo in cui il cannibale esiste e lei potrebbe esserne vittima, si trova a empatizzare con il cervo di cui si sta per nutrire.
In entrambi i casi, si tratti dell’uccisione di un essere umano o di una bestia, entra in gioco una sorta di noblesse oblige: sia il padre di Abigail che Hannibal uccidono con com-passione, sorta di fatalisti esecutori del volere della Natura e della sua gerarchia; sia il padre di Abigail che Hannibal non buttano nulla della preda cacciata, sebbene in modo diverso, in una forma poco intuitiva di estremo rispetto per il sacrificio compiuto.
Written by Serena Bertogliatti
Una sorpresa, Hannibal. Da anni a questa parte, 25 quasi, almeno per me, si aspettava una serie tv capace di rivoltare la tv commerciale come fece Twin Peaks. Non è un caso che lo stesso Bryan Fuller lo citi spesso come ispiratore per certe sequenze, sebbene ci siano moltissime altre citazioni prese un po’ dappertutto (da Shining fino ad Alice in Wonderland). Pazzesco… e anche quest’aggettivo diventa assolutamente riduttivo.