“La dodicesima notte”: la commedia di William Shakespeare diretta ed interpretata da Carlo Cecchi
“Shakespeare è il Teatro assoluto. Un’attualità che va al di là dell’attualità.
È talmente universale Shakespeare… che quasi miracolosamente, diventa sempre, immediatamente, Teatro”. Carlo Cecchi
Nell’ambito della “Estate Teatrale Veronese” che festeggia quest’anno il 450° anniversario dalla nascita di William Shakespeare, Carlo Cecchi dirige e interpreta il “gioco bello e terribile” de “La dodicesima notte“, una delle commedie più complesse e particolari di tutta la produzione del drammaturgo inglese: ambigua ed essenziale, contraddittoria e problematica. Indecifrabile, sublime.
Lo spettacolo ha debuttato in prima nazionale il 16 luglio al Teatro Romano in Verona, con repliche fino al19. In scena il 23 luglio a Marina di Pietrasanta al Teatro La Versiliana per poi riprendere con nuove date da febbraio 2015.
L’Illiria – il non-luogo in cui si svolge la vicenda – più che una dimensione naturale illustrata diventa una percezione, un’area determinata dallo spazio scenico che si costruisce a partire dai gesti e dalle intenzioni degli attori: la scena essenziale di Sergio Tramonti gioca sulla centralità della Musica e si riempie dei corpi in movimento degli attori. Uno sfondo che prende i colori del blu e del verde, del giallo o del nero a seconda delle scene. Un girevole al centro del palco per accompagnare la follia e lo scorrere del tempo: le sensazioni e gli istinti dei personaggi e lo spazio in cui agiscono si corrispondono. Così come gli abiti di scena di Nanà Cecchi rispecchiano l’umore cangiante dei protagonisti, lievi e fruscianti quelli di Olivia accompagnano la trasformazione della donna che risponde al richiamo dell’amore, impeccabili e nobili quelli del conte Orsino rimarcano, con un certo autocompiacimento di chi li veste, la distinzione del rango rispetto alle coloriture fresche e talvolta dalle tonalità forti degli altri personaggi.
“If music be the food of love, play on/ Give me excess of it, that, surfeiting,/ The appetite may sicken, and so die.”
Orsino – un elegante Remo Stella – il duca tenacemente innamorato della bella Olivia (Barbara Ronchi) a sua volta tenacemente decisa a non sposarlo e a rimanere fedele al ricordo del defunto fratello, introduce nella prima scena del primo atto alla musica che sostiene e sublima il delirio dei personaggi rendendolo incantevole, proprio come l’amore. Del resto gli Attori sono insieme “esecutori” e “partitura”, “direttori d’orchestra”. E ai margini dello spazio scenico sono disposti Luigi Lombardi d’Aquino, Ivan Gambini e Alessio Mancini, i tre musicisti che eseguono dal vivo le musiche originali di Nicola Piovani.
Il plot principale è piuttosto semplice: sulle coste dell’Illiria giunge la giovane Viola scampata ad un naufragio, è stata separata dal gemello Sebastiano di cui piange già la morte e che, invece, è stato salvato da Antonio (Federico Brugnone) innamorato di lui teneramente. Aiutata dal capitano (Rino Marino) che l’ha soccorsa, la ragazza decide di presentarsi a servizio del duca Orsino travestita da eunuco. Il duca prende il giovane Cesario, così si fa chiamare Viola (Eugenia Costantini), in gran simpatia e lo manda, sostituendo il gentiluomo Valentino (Giuliano Scarpinato), come emissario delle sue pene d’amore – non ancora perdute – presso la bella Olivia.
Tutto sicuramente filerebbe liscio se la bella dama non si innamorasse di Cesario. Fortuna vuole – più che altri lo vuole il caro Shakespeare, come spiega Cecchi stesso nelle note di regia – che Sebastiano, deciso a recarsi alla corte di Orsino venga scambiato per il paggio del duca da Olivia proprio come nella migliore tradizione plautina e degli italiani del Cinquecento. Così il duca sposerà Viola, finalmente libera di svelare il suo segreto.
La commedia è corale, le singole voci trovano rispondenza le une nelle altre. Come quella di Eugenia Costantini, figlia d’arte, nel gioco di ruoli in cui simula e dissimula, fra la tenerezza della fanciulla innamorata e la maschera che consapevolmente indossa per difendersi e realizzare il suo proposito, fra ingenuità e avvedutezza.
Come quella di Barbara Ronchi altera e cupa nella prima scena, mollemente piegata all’improvvisa accensione dei sensi nel tentativo di seduzione di Cesario/Viola poi, e da ultimo rasserenata all’acquetarsi della passione con la sostituzione finale dell’oggetto amato.
Così nella scena tra Antonio e Sebastiano, in cui l’ambiguità sessuale viene filtrata attraverso l’uso misurato e mai volgare dei gesti dei due interpreti: Federico Brugnone è un appassionato e tenace Antonio, Davide Giordano è il gemello di Viola altrettanto calcolatore e attento a cogliere tutte le occasioni che il fato gli offre per raggiungere un nuovo equilibrio.
L’altro plot che si snoda parallelo all’arrivo di Viola in Illiria, ha come protagonista l’irriverente e beffardo Sir Toby Belch che, accompagnato dall’ingenuo Sir Andrew Aguecheek – interpretato dallo spumeggiante Loris Fabiani -, “gioca” ai danni del maggiordomo Malvolio di cui intende vendicarsi stuzzicandone il narcisismo, complici la servetta “acchiappa merli” Mary – affidata alla sicurezza briosa di Antonia Truppo -, il buffone Feste e Fabian – il galantuomo che Giuliano Scarpinato rende simpaticamente siciliano -.
Tutti gli attori riescono a mantenere il ritmo della commedia sempre sostenuto, ammiccanti e mai volgari, come nel caso di Eugenia Costantini e Barbara Ronchi quando Viola/Cesario deve rifiutare Olivia mentre la dama è presa da una passione feroce e irrazionale per il paggio.
Questo rapporto, speculare a quello tra Antonio e Sebastiano è emblematico: in tutta la commedia nessuno viene conquistato con più facilità di chi non si ama, nessuno conquista con più facilità se non colui (o colei) che poi amerà chi ha conquistato, in un vorticoso gioco di scambi e di equivoci.
È sempre l’amore il fulcro intorno al quale ruota tutto il sistema delle contraddizioni e delle complesse volontà dei personaggi che “non si appartengono”: ognuno incoraggia l’altro a trovare quel “what you will” in chi desidera di più. L’amore così reciprocamente inseguito non viene mai dato da chi dovrebbe a chi lo vorrebbe: è la stessa Viola a dirlo nel monologo dell’anello, quando “povero mostro”, uomo bello ma falso uomo, ammette di amare Orsino, innamorato di Olivia che si è innamorata di Cesario.
L’amore è improvviso, “come è possibile prendere la peste così in fretta?” dirà Olivia stessa quando il paggio si sarà allontanato. L’amore è realizzato con la beffa, la farsa: “il travestimento è l’inganno da cui meglio trae vantaggio il nemico astuto” ripete Viola/Cesario quando realizza che Olivia si è invaghita di lei. L’amore è conquistato con le arti femminili del raggiro: Maria conquisterà Sir Toby con lo scherzo a Malvolio, ma si tratterà sempre di un inganno feroce.
La parola “dice” negandosi, “ciò che è, è” spiega in tutto questo vorticoso affanno il buffone Feste, la ragione che si fa folle. O meglio, la follia che si fa razionale: in tutta la commedia, di fatto, nessuno è ciò che sembra: “I am not that I play” suggerisce Viola a colloquio con Olivia, lasciando intendere che ciò che è, in realtà, non è.
La parola scritta è affidata alle lettere: lettere che sfidano, lettere che ingannano e che disvelano l’inganno, lettere che minacciano: “parole corrotte” che esplodono e si incastrano le une nelle altre. Come la lettera di Maria ai danni di Malvolio: Carlo Cecchi è magistrale nell’interpretare con velato, problematico umorismo il maggiordomo vanaglorioso tra il puritanesimo di uno che “ha imparato a memoria i dettami dell’etichetta per rinfacciarla a chi non la rispetta” e la tensione di un cinico calcolatore verso la scalata sociale che il matrimonio con Olivia comporterebbe.
Nei monologhi, impareggiabili “a solo”, ritmando il passo cadenzato con cui entra in scena sul tema che Piovani ha tessuto sul personaggio e che gli sembra cucito sulla pelle, Cecchi sa incantare. Per tutti i cinque atti, nelle battute ora di uno ora dell’altro, si assiste ad un continuo rimando al “gioco” della messa in scena: “se vedessi tutto questo a Teatro lo direi inverosimile” ammette Fabian, mentre gli Attori consegnano al pubblico una straordinaria “vis comica” sempre sostenuta e coinvolgente, in cui i doppi sensi più o meno dichiarati, le ambiguità semantiche, i giochi di parole ammiccanti e mai volgari accompagnano una mimica misuratamente disordinata e perciò efficace.
Ad un ottimo Dario Iubatti è affidato, oltre che il compito delicato di aiuto regia, il ruolo del buffone-“corruttore di parole”, altro personaggio particolare e complesso della drammaturgia shakespeariana. Con Toby ed Andrew canta e suona i motivi che Nicola Piovani ha sapientemente reso assolutamente teatrali e shakespeariani: “i tre musicisti entrano progressivamente nel ritmo e nelle sonorità degli attori, in una sorta di impercettibile interazione” come spiega lo stesso compositore. Feste “vende la sua follia” al pubblico; trascinante e capace di costruire, con talento e razionalità, un’atmosfera carica di tensione, Tommaso Ragno coinvolge i compagni di scena e i tre attori formano così un gruppo davvero affiatato, regalano momenti di pura energia, scene di una comicità deliziosa e irrinunciabile.
Ma è proprio Sir Toby (Tommaso Ragno) ad esprimere tutta la problematicità e l’ironia sottese alla commedia: non il solito ubriacone, ma un uomo complesso che nasconde dietro il boccale “di-vino” il sorriso amaro di chi ama la vita e intende “godersela”. L’Attore riesce a rendere ogni battuta di sagace comicità con una nota più grave nella voce inconfondibile, con una nota più acuta a provocare un sorriso mai fine a se stesso: cosa si nasconde dietro l’ubriachezza di Sir Toby? Forse un comédien che si diverte in quel dondolarsi nei fumi della Malvasia a rimanere sempre in equilibrio sfidando il gioco stesso del Teatro. Forse è proprio metafora dell'”Attore” che, sebbene rimanga sempre uomo, ha il talento e la forza di tirare fuori da sé la consapevolezza del personaggio che interpreta riuscendo a “scoprirlo” al di là del testo già scritto. Così Tommaso Ragno regala al pubblico la molteplice essenza di un personaggio shakespeariano impegnativo sia dal punto di vista fisico che attoriale, metateatrale, profondamente inafferrabile e proprio per questo assolutamente affascinante.
Ed il buffone, seguendo il testo shakespeariano originale che conserva alcune delle cadenze inglesi, anche grazie al prezioso lavoro di traduzione della poetessa Patrizia Cavalli, ha la possibilità di giocare con le inflessioni: quando deve rivolgersi a Malvolio “il lunatico” con barba finta e tonaca scura fingendosi Sir Topas il curato, ecco che Dario Iubatti si diverte con una parlata gustosamente marchigiana e si alterna a Feste stesso intervenuto in soccorso del gabbato Malvolio.
È la Musica che scandisce e accompagna fin dal principio i gesti dei personaggi con sottile umorismo e leggerezza a chiudere lo spettacolo, è la Musica che scioglie e ricompone nella melodia cantabile il disordine del mondo, della storia, delle vite di ciascuno, il nodo delle contraddizioni dell’esistenza di cui il Teatro è forma: il buffone Feste saluta il pubblico con l’ultima canzone e si inchina.
Ed anche se “che importa il gioco è terminato” sul palco, nella vita il Teatro continuerà ad esistere: come il sole, come la follia che “splendono un po’ ovunque”. Perché il Teatro è vita. Perché il Teatro è una creatura da cui si impara a vivere solo guardandola morire e rinascere, incapace per natura e circostanza di annullarsi ed estinguersi mai realmente.
Written by Irene Gianeselli
http://youtu.be/jKr7oSj0hMs
Da recentissimo spettatore della commedia, mi è gradito fare i più sinceri complimenti all’Autrice di questo bell’articolo che ha perfettamente còlto nel dettaglio tutti gli aspetti più rilevanti di una rappresentazione sicuramente all’altezza del genio goliardico e beffardo, e non solo lirico e tragico, di William Shakespeare. Se si vuole capire il Teatro con la “t” maiuscola occorrerà passare sempre dal Bardo, e Carlo Cecchi ha fatto bene a riproporne una delle commedie più complesse e ricche di sfumature interpretative, da mettere quasi alla pari delle altre opere – soprattutto tragedie – shakespeariane più note e più frequentemente messe in scena sui palcoscenici italiani.
Complimenti ancora,
Danilo Breschi