“Il sole del Baltico”, libro di Francesco Pasella: si lotta per sopravvivere ad una solitudine sterminata
Di Franscesco Pasella avevo sentito parlare, bene, come poeta attivo nell’organizzazione di eventi letterari di rilievo, come la Rassegna Risvegli poetici, che ogni anno si tiene a Tempio Pausania, e avevo letto di una sua pubblicazione, la prima, Il porto degli sconfitti (2007).
Ora Il sole del Baltico giunge a confermarmi, in versi certo più maturi, un momento ulteriore di dolente riflessione sul quotidiano e sulla condizione esistenziale d’isolamento che l’umano patisce, specie se poeta. Il dolore accartoccia i versi, non la prospettiva di un’ineluttabile sconfitta: non sparisce l’idea di una possibilità, salvifica, proprio in quanto sussiste come ipotesi.
Lo sguardo di tanto in tanto si volge alla matrice, sia essa la terra, la madre, la figura femminile, poi mutata in possibile compagna, figura, certo, di un porto sicuro in cui cercare rifugio.
Materia e spirito, anima e corpo, terra e aria, sembrano inevitabilmente, senza tregua, combattersi, nella speranza, forse, di una mai raggiunta sintesi e pacificazione.
Parole chiave ricorrenti, oltre l’idea di separazione e lontananza, sono la solitudine, il buio e la luce, nelle loro infinite variazioni, a rincorrersi nel giorno, nell’alternarsi ciclico delle stagioni, che sono, ormai, stagioni cristallizzate dell’anima.
Perenne l’agonia dell’esistere, la rabbia, il tentativo di opposizione dimostrato dalle anaforiche cadenzate e volitive ripetizioni dei quando potrò e potessimo. Ma quasi impossibile…sfuggire alle inquinate/inquietudini. Si lotta per sopravvivere a una solitudine sterminata, non del singolo, certo, ma esistenziale umana.
Anaforico è pure il canto dell’amore, che tenta sempre di tornare, solitario, oltre la tenera solitudine del silenzio. Il poeta ha la sua roccaforte e vive nel suo tempio di parole, che trovano spesso ispirazione nel linguaggio cinematografico, dove la parola solitudine continua a picchiare forte il verso.
Tremolanti lumi d’inverno sono metafora, nemmeno tanto oscura, ma volutamente chiarita di sparuti sussulti di coscienza di noi che siamo figli di nessuno; mentre inverni e primavere si rincorrono, il poeta esprime con convinzione il suo più grande desiderio: vorrei la forza di affrontare a muso duro il buio!
È inverno perenne anche nei pomeriggi di luglio e nulla di materiale può offrire difesa. Ecco allora: Lasciare una dignitosa/ impronta nella terra,/ l’unico verso che conta. Non resta forse che vivere, quasi misantropo, nel proprio eremo incolto e selvaggio, accettato quasi come destino, nell’inesauribile speranza di un sole alchemico, ricerca anche di un alter ego femminile, poetessa, capace di cacciare il freddo dal proprio rifugio solitario.
Tuttavia, non solo e, forse, non tanto la solitudine e l’isolamento in sé danno dolore al poeta, solo l’indifferenza dei giorni/ mi uccide. Le frasi ripetitive. L’ovvietà, dunque, la banalità di un quotidiano insulso, cui a volte risponde con parole e versi, altre col proprio silenzio: difficile trovare antidoti/ ai percorsi guidati/ da briglie meschine.
Il poeta ci confessa, lontano da ogni morale religiosa a fondamento teologico, ma con un’etica tutta volta al presente storico dell’individuo nel mondo, che la sua religione è un anello esile e sottile/ di tenace speranza, tra opere, sorrisi, rancore perennemente covato, perché sempre c’è un ramo di morte/ conficcato/ nel diluvio della vita.
La poesia è quasi una maledizione, una condanna a camminare da soli tra le pieghe sconfinate della solitudine. Dentro il petto ribolle la rabbia per un enigma ancora irrisolto. Pasella si chiede: Tornerà la speranza? Risponde: Per qualche tempo, forse, potrei illudermi di essere felice.
Written by Katia Debora Melis