Nessi infami: le poetesse morte suicide, da Sylvia Plath a Sarah Kane

“Per mio conto non saprei definire quest’araba fenice, questo mostro, quest’oggetto determinatissimo, concreto, eppure impalpabile perché fatto di parole, questa strana convivenza della musica e della metafisica, del ragionamento e dello sragionamento, del sogno e della veglia”.  Eugenio Montale

Sylvia Plath

Nemmeno ai giorni nostri è possibile definire “quest’oggetto determinatissimo” sebbene siano ancora molti coloro che si rifugiano nella poesia: quel particolare suono in grado di far percepire il mondo senza una quotidianità che in alcuni casi, priva del gusto di cogliere le infinite seduzioni dell’esistenza.

I poeti versano di giorno o di notte, testimoniano il viaggio della vita inconsapevolmente, consci di praticare un’arte non conforme alla natura materica e alle esigenze reali dell’uomo.

Sono prede di quel vuoto che si apre dentro le viscere, quel vuoto senza luce che fa chiudere nei metri amori e amici, e avvolge dentro un sentire qualcosa prima che qualcosa accada.

C’è sempre troppo vento nelle case dei poeti mentre scrivono, qualche finestra che sbatte, troppi libri, strane voci che sussurrano. Dentro l’inchiostro scorre l’ultimo filo di orgoglio, a terra, sul pavimento, fogli di carta custodiscono il verso appena nato. Nelle biografie di ieri, destini infami:

Anne Sexton

Non la trovammo noi/ fu lei che ci trovò./ Ci scovò a fiuto./ Il Destino che portava/ ci scovò/ e ci riunì, ingredienti inerti/ per il suo esperimento./ La Favola che portava/ requisì te, me e lei,/ marionette per la sua rappresentazione.”  

Londra 1963.

A cosa pensava Sylvia Plath, quando infilò la testa nel forno , dopo aver scritto l’ultima poesia intitolata “Orlo” ed aver preparato pane e burro e due tazze di latte da lasciare sul comodino nella camera dei bambini?

I suoi figli erano al secondo piano che dormivano, anche lei, forse, si stava preparando per dormire.

E adesso?

Chissà se dorme serena, ora che il tempo si è fermato accanto alla sua amica rivale Anne Sexton, che la imitò nel 1974 a Weston:

Lo strano era/ che mi sentivo/felice anche se non si vedeva./E’ così che succede, so farlo bene,/essere una cosa e anche un’altra./” – Anne Sexton (da Anne su Anne)

Antonia Pozzi

Anne era bella e dannata, scriveva versi in cui sesso e poesia diventavano tutt’uno. Scriveva per guarire, per curare la parte sana di sé.

Di lei dicono che fosse atea e devota al sacro, e come tutti i pazzi, chiudeva gli occhi per vedere.

Sylvia ed Anne erano entrambe bostoniane, le loro opere sono state collegate all’interno di un filone definito “confessional”, stile che descrive il vissuto negli aspetti personali e intimi.

Sembra che la poesia diventi necessaria alle anime infinitamente fragili, possedute dal demone che verso dopo verso le guida nell’abisso interiore.

Che dire:

Della lingua e della scrittura, considerate come operazioni magiche, stregoneria evocatrice.” C. Baudelaire

Virginia Wolf

La poesia s’insinua come un ectoplasma bisognoso di riaggregarsi per comunicare, trova un corpo su cui incarnarsi, una lingua con cui suonare e come una tentatrice, chiede all’anima di annullarsi.

Sylvia ed Anne, diventeranno oggetto di culto per gli studiosi di letteratura inglese e americana, simboli, per le femministe americane: entrambe rappresentano il dramma celato tra le pareti domestiche.

Il ricordo si estende nel dramma, nel 1938 a Milano, Antonia Pozzi si toglie la vita a soli 26 anni:

Giuncheto lieve biondo/ come un campo di spighe/ presso il lago celeste/e le case di un’isola lontana/ color di vela/pronte a salpare –/ Desiderio di cose leggere/ nel cuore che pesa/ come pietra/dentro una barca –/ Ma giungerà una sera/ a queste rive/ l’anima liberata:/senza piegare i giunchi/ senza muovere l’acqua o l’aria/ salperà – con le case/dell’isola lontana,/ per un’alta scogliera/di stelle –/– Desiderio di cose leggere 1° febbraio 1934, Antonia Pozzi

Marina Ivanovna Cvetaeva

Rodmell, 1941, Virginia Wolf s’immerge nel fiume Ouse con le sue le tasche piene di sassi:

La bellezza del mondo ha due tagli, uno di gioia, l’altro d’angoscia, e taglia in due il cuore.– Virginia Wolf

Nella città di Elabuga, Marina Ivanovna Cvetaeva, una delle voci più originali della poesia russa, pone fine alla sua vita una domenica d’estate del 1941.

La vita della poetessa russa, sembra costellata di brucianti passioni ed inevitabili separazioni, fonte inesauribile di ispirazione poetica:

Ho paura che la sventura (il destino) sia in me: io non amo, non so amare nulla veramente, fino in fondo, cioè senza fondo – a parte la mia anima, e cioè l’angoscia, che trabocca e si riversa per tutta la terra e oltre i suoi confini. In tutto – in ogni persona e sentimento – io sto stretta, come in ogni stanza:di una tana o di un castello. Io non riesco a vivere, e cioè a durare, non so vivere nei giorni e ogni giorno vivo fuori di me. È una malattia inguaribile e si chiama – anima.” – Marina Ivanovna Cvetaeva

Amelia Rosselli

Roma. Amelia Rosselli, per cause ricollegabili alla sua depressione, si toglie la vita nel 1996.

La Rosselli si era fatta interprete del destino di Sylvia Plath, da lei considerata la maggiore poetessa contemporanea, ciò ha segnato e segna involontariamente un collegamento indelebile con la tragica fine della Plath.

… Le redini/ si staccano se non mi attengo al potere della/ razionalità lo so tu lo sai lo sanno alcuni ma/ ugualmente la cara tenda degli scontenti a volte/ perfora i miei sogni– A. Rosselli, La libellula, in Le poesie, Garzanti, Milano 2009

Londra. Sarah Kane, una voce teatrale senza compromessi, autrice di numerosi testi teatrali suicida nel 1999, aveva appena compiuto 28 anni:

Sarah Kane

… guardare le tue foto e desiderare di averti sempre conosciuta e sentire la tua voce nell’orecchio e sentire la tua pelle sulla mia pelle e spaventarmi quando sei arrabbiata e hai un occhio che è diventato rosso e l’altro blu e i capelli tutti a sinistra e la faccia orientale e dirti che sei splendida e abbracciarti se sei angosciata e stringerti se stai male e aver voglia di te se sento il tuo odore e darti fastidio quando ti tocco e lamentarmi quando sono con te e lamentarmi quando non sono con te e sbavare dietro ai tuoi seni e coprirti la notte e avere freddo quando prendi tutta la coperta e caldo quando non lo fai e sciogliermi quando sorridi e dissolvermi quando ridi e non capire perché credi che ti rifiuti visto che non ti rifiuto e domandarmi come hai fatto a pensare che ti avessi rifiutato e chiedermi chi sei ma accettarti chiunque tu sia …” – Febbre: da un estratto Sarah Kane

Patrizia Valduga

Su una riflessione in madrigale di tipo cinquecentesco, nata dalle dita di una poetessa che vive, “il martirio è il verso”, la poesia è fluida, è sangue che cola, poi si rapprende e s’aggruma ai confini, e la parola penetra dentro la materia:

Sa sedurre la carne la parola,/ prepara il gesto, produce destini …/ E il martirio è il verso,/ è emergenza di sangue che cola/ e s’aggruma ai confini/ del suo inverso sessuato, controverso.” – da Medicamenta di Patrizia Valduga.

 

Written by Carina Spurio

 

14 pensieri su “Nessi infami: le poetesse morte suicide, da Sylvia Plath a Sarah Kane

  1. Credo che bisogna distinguere i pazzi, i perseguitati e gli egoisti, perché sono questi coloro che si tolgono la vita, i “poeti” non scrivono in maniera morbosa di se. Chi scrive poesia ama la vita e scrive di questo, della fragilità propria non ne fa una colpa, ma la raffina. Comunque bell’articolo ;)

  2. Prima dell’essere poeti ci sono gli esseri fragili che non hanno sopportato il male di vivere. Non ho cercato e : Non cercate di prendere i poeti perché vi scapperanno tra le dita.
    A.M.
    Grazie a voi!

  3. e poi manca Nika Turbina, la poetessa sovietica, bambino prodigio, premio Achmatova, morta giovanissima, suicida….

  4. Complimenti Carina. Decidere di farsi largo fra questi mostri muti, di entrare senza bussare, per aspirare gli ultimi profumi rimasti appesi in qualche posto della casa, in cucina, in camera. Decidere di seguire la lenta discesa fra le acque, senza tornare indietro, senza vuotare le tasche. Attendere gli ultimi respiri di chi seppe morire senza opporsi alla morte, ingrandire le facce, fissare gli occhi prima che si chiudano e con loro la bellezza, il dolore, il riso, il pianto, la tenerezza, la nostalgia, l’inutilità di chi seppe raccontarle prima della fine, si, questo, e’ un dono. E di questo dono ti sono grata.

  5. Come sempre, ciò che scrivi si distingue per originalità e profondità. Hai saputo toccare la fragilità umana, sposandola alla genialità della parola poetica di persone che possono apparire lontane, ma sono in realtà accomunate fal fuoco dell’arte. Ottimo lavoro.

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