Resoconto del “Gods of Metal 2012”, 22 giugno seconda giornata, Milano

Venerdì 22 giugno, seconda data per il Gods Of Metal 2012 e già dalle prime ore della mattina si preannuncia un venerdì di fuoco, alle 9.30 – orario previsto di apertura dei cancelli – il termometro alla fiera di Rho (MI) segna 35 gradi e l’asfalto già li supera rosolando le suole dei presenti, ma quando la grande musica chiama non c’è sole che tenga.

I cancelli però alle 9.30 sono ancora chiusi e i minuti passano…. Quando finalmente alle 10 il varco viene aperto la tabella di marcia è ormai viziata, e sfortuna vuole che a rimetterci siano i Cancer Bats. La punk hardcore band di Toronto sembra avere una maledizione che riguarda i ritardi di apertura porte, così, dopo la performance saltata al Download Festival per l’identica ragione, oggi almeno il tempo di imbracciare gli strumenti e fare un po’ di casino Liam Cormier e compari se lo accaparrano; purtroppo il tempo in questione supera di poco i 10 minuti ed è inutile dire che sia fin troppo breve, ciononostante la prestazione della band non ne risente, certo, si ha giusto il tempo di sentire una terzina di canzoni e l’immancabile bestemmia nel microfono del signor Cormier, ma nei minuti risicati i Cancer Bats rovesciano tonnellate di carica elettrica e nervosismo punk, e si portano a casa il meritato applauso della piccola folla presente, un’esibizione veramente tosta, ed è un peccato che sia dovuta terminare così rapidamente.

I tecnici corrono sul palco e in quattro e quattr’otto effettuano un cambio di set degno di un pit stop da formula uno, tutto pronto per Liam Cormier che torna nuovamente sul palco, questa volta con il side-project ideato da Matt Truck, frontman dei Bullet For My Valentine. Si ingrana con un po’ di fatica a causa anche di qualche problemino alla batteria del forsennato Jason Bowld, ma passato l’ostacolo iniziale, e nonostante il grosso del pubblico – forse per il caldo o forse per scarso interesse – resti abbastanza arretrato e indaffarato in altro, il neonato quintetto anglo-canadese spara a decibel mostruosamente alti – forse addirittura troppo – il proprio mix di melodie e metalcore, i pochi irriducibili pogano sotto il palco e alla fine l’applauso arriva anche per loro, se non per la prestazione vera e propria, purtroppo non impeccabile, sicuramente per la grinta mostrata.

Dopo due bombe hardcore a orologeria ora è tempo di passare al filo conduttore della giornata, quello del cosiddetto hair metal che porta dritti dritti ai Guns N’Roses che si esibiranno questa sera, sul palco salgono gli Ugly Kid Joe, band di caratura decisamente alta rispetto all’orario assegnatole, ma tant’è, la formazione californiana, nata alla fine del decennio ’80 che si era scissa nel ’97 lasciando ai posteri tre album, un EP e un buon numero di singoli, torna a calcare i palchi italiani dopo la reunion del 2010 e lo fa con un’energia dirompente che conquista già al primo attacco. La quarantina di minuti che li vede sul palco viene sfruttata fino all’ultimo centesimo di secondo, senza una pausa, un pezzo dietro l’altro da “Milkman’s son” a “Neighbor” che scaricano adrenalina sui presenti salvo disorientarli con “Cat’s In The Cradle”, superballad datata 1974 e firmata Harry Chapin, eseguita con una tecnica e una passione disarmanti, bravi ragazzi! E ben tornati! Giusto il tempo di cambiare nuovamente set e dalle spiagge di Santa Barbara si corre subito veloci verso le lande desolate dell’Arizona, a far vibrare casse e amplificatori arrivano i Soulfly capitanati dall’esplosivo Max Cavalera, fondatore oltre che della band di Phoenix anche di Sepultura e Cavalera Conspiracy, e quel che aspetta il pubblico del Gods è l’immutabile ondata di trash metal che caratterizza da sempre le esibizioni del quartetto, 40 minuti senza un solo accenno di cedimento nonostante l’orario canicolare, Max è un osso duro, prende il suo microfono e se ne frega del sole che gli batte impetuoso sulla fronte; per chi li ha già visti è la solita inossidabile sicurezza, per i novizi è un gran bel delirio di ritmiche tirate, voce oscura e batteria martellante, immancabili anche il coro aizzato dal frontman brasiliano e l’apparizione della maglia della nazionale italiana. Si chiude con l’intro di “Angel Of Death” degli Slayer trasformata in itinere nella tonante “Eye For An Eye”, Max, Marc, Tony e David salutano tra gli applausi sicuri di aver fatto anche questa volta egregiamente il loro lavoro, horns up e alla prossima!

Dopo una pausa di venti minuti più lunga del previsto si torna nuovamente in California, e lo spirito di una delle più grandi rock band del mondo aleggia nell’aria con la marmorea performance dei Rival Sons. La band di Los Angeles nonostante la breve esibizione regala emozioni forti tra l’appeal da palcoscenico e la vocalità strepitose di Jay Buchanan, le svisate chitarristiche di gran classe di Scott Holiday, il tempo solido battuto da Mike Miley e le linee di basso coinvolgenti di Robin Everhart. Quattro elementi, quattro strumenti e tanta carica che arriva direttamente dagli anni ’70, dalla decade più sconvolgente della storia della musica e dalla più grande rock-blues band che questo mondo abbia avuto il piacere e l’onore di ospitare. Ad ogni nota dei Rival Sons l’aura dei Led Zeppelin fa vibrare i cuori del pubblico e – anche se certi confronti non sono mai proponibili – il buon Jay Buchanan in stato di grazia e il fido Scott Holiday che sembra posseduto da qualche guitar god ricordano proprio l’esagerata coppia Page-Plant, ed è davvero una goduria… Peccato che la scaletta, causa il ritardo iniziale, venga tagliata di qualche brano e non possa essere completa. I rival Sons si portano comunque a casa l’approvazione della folla festante e una delle migliori esibizioni di questa edizione del Gods.

Restiamo negli States, ma questa volta si viaggia verso la east coast, per la precisione nella ridente cittadina di Edmonton, nel bel mezzo del Kentucky, culla dei Black Stone Cherry, band formatasi nel 2001 che dopo i primi due convincenti album e dopo aver aperto i concerti dei Nickelback raggiunge il successo planetario con “Between the Devil and the Deep Blue Sea” del 2011, i cui singoli passano a ripetizione sulle frequenze di Virgin Radio. I quattro mettono insieme uno show davvero divertente, con l’istrionismo di John Fred Young e il deflagrante effetto delle sue bacchette, la presenza scenica di Ben Wells che in meno di un’ora macina chilometri da una parte all’altra del palco con la sua Gibson a tracolla, e la carica vocale e chitarristica di Chris Robertson, frontman convincente e limpido nell’esecuzione. Il gruppo conquista e convince con una scaletta graffiante che vede qualche pezzo dal primo album e altri presi dalle cime delle classifiche radiofoniche toccate negli ultimi 2 anni, prima di concludersi tra i pugni alzati del pubblico con l’energica “Blame It On The Boom Boom”, bravi, bravi, bravi!

Troppo “da classifiche” per il Gods Of Metal i Black Stone Cherry? Forse, ma niente paura, ci stiamo avviando verso la fase conclusiva e un altro gradito ritorno fa detonare quintali di tritolo in musica. Il ritorno è quello di Jesse Leach, che dopo 10 anni torna a regalare la sua voce ai Killswitch Engage. Il rientro dello storico frontman in sostituzione del comunque ottimo Howard Jones dona una nuova carica ad una delle band capostipiti del metalcore e il risultato è un’esibizione convincente nonostante qualche comprensibile cedimento vocale di Leach e caratterizzata da una scaletta forse un po’ scontata ma affascinante, che assomiglia a un Best Of della carriera del gruppo del Massachusetts. Il concerto si conclude con la splendida cover di “Holy Diver” di Ronnie James Dio, pare che tutti ci tengano a porgere il proprio saluto alla grande immagine del cantante di Portsmouth, e come dar loro torto? L’ultimo applauso è tutto per Ronnie, corna alzate e commozione, la musica è anche questo…

La nostalgia è il fil rouge anche del concerto successivo, quello di una vera e propria icona dell’hard rock, Sebastian Bach, storico frontman degli Skid Row dei tempi migliori che con l’atteggiamento ipertamarro che lo contraddistingue da sempre fa il proprio ingresso sulle note potenti di “Slave To The Grind”, si partirebbe a bomba non fosse per il microfono che non funziona, Sebastian la prende “leggermente” male e inveisce contro i tecnici scaraventando il microfono per terra, l’entrata trionfale è rovinata ma poco importa, “Slave To The Grind” riparte, e questa volta anche con la voce. Sotto il palco è un’esplosione di urla e applausi, anche se le corde vocali del buon Sebastian hanno bisogno di un po’ di riscaldamento aggiuntivo…. Detto fatto, dopo un paio di canzoni il canadese torna ad essere quello di sempre e per poco più di un’ora delizia gli astanti con una tracklilst che alterna brani della carriera solista ad altri – i più applauditi – dai primi due album degli Skid Row.

Il tempo scorre veloce e l’uno-due dolce-secco di “I Remember You” e “Youth Gone Wild” ci dicono che il tempo a disposizione di Bach è terminato, i novizi si esaltano, i nostalgici si emozionano e tutti applaudono un tuffo nel passato piacevole e denso. Sono già arrivate le 7.30 e l’attesa si fa snervante, tanto che i Within Temptation, incastrati tra due mostri sacri come Bach e i successivi Guns subiscono un certo disinteresse del pubblico, immeritato perchè la formazione olandese capitanata dalla bella Sharon Den Adel compie un lavoro egregio e – seppur forse un po’ fuori posto in una giornata tendenzialmente hard rock – suonano una gran bella ora e mezza di symphonic metal andando a sopperire all’assenza dei connazionali Epica che solitamente non mancano il passaggio al Gods. Anche per loro la setlist è da greatest hits e nonostante il clima distaccato è davvero un piacere farsi cullare e agitare dalla voce impeccabile di Sharon…

Ma dopo la finale “Mother Earth” i saluti dei Within Temptation sono il preludio del momento più atteso, quasi un’ora di pausa per preparare l’ultimo set della giornata, ma nessuno degli spettatori che si schiodi dalla sua posizione guadagnata col sudore (ed è proprio il caso di dirlo) della fronte.

Tutto è pronto e come per ogni grande band più che ventenne il pubblico presente è di generazioni differenti, ci sono i ragazzini al loro primo concerto, chi i Guns li ha conosciuti quando ormai i giochi erano fatti e il carattere di Axl aveva già rovinato la favola, e gli inossidabili, gli ossi duri, quelli che l’ondata Guns N’Roses se la sono goduta in pieno nell’87 e che ancora ne portano i segni, più o meno evidenti…

Tre generazioni diverse unite nel segno di una band che purtroppo ancora non accenna a volersi ricompattare in quella splendida formazione che l’ha portata sul tetto del mondo e che ormai più che Guns N’Roses potrebbe chiamarsi Axl & Friends….

Sotto il palco si scambiano chiacchiere e opinioni, c’è chi vede Axl per la prima volta e non sa cosa aspettarsi, c’è chi l’ha già visto e assicura che sarà uno spettacolo e c’è chi, memore delle notizie non certo confortanti che arrivano da esibizioni e sparate varie del frontman, è lì soltanto per vedere come è riuscito a ridursi, ma tra tutti gli spettatori c’è la quasi certezza che ci sarà da aspettare, Rose non è nuovo a ritardi immotivati anche pesanti e la speranza di vederlo spuntare da dietro le quinte in orario è sottilissima.

E invece arriva la sorpresa quando alle 10 il primo amplificatore vibra con soli 15 minuti di ritardo, i musicisti fanno il loro ingresso tra le urla della folla e all’arrivo di Axl – con l’ormai immancabile abbigliamento fatto di chiodo sulle spalle, occhiali da sole e cappello in testa – i 10000 presenti vanno in visibilio.

L’opening è affidato a “Chinese democracy”, title track dell’album con la gestazione più lunga della storia della musica, il pubblico sotto canta e balla divertito, Axl sul palco è un vulcano, corre, salta e incita la folla come ai tempi d’oro, nonostante il fisico imbolsito e la voce ormai mostruosamente ridotta non lo aiutano.

Finisce il primo pezzo e l’applauso arriva scrosciante e festante, ma è la successiva tripletta a sconvolgere i fan quando direttamente dal 1987 scoppiano violente le note di “Welcome To The Jungle”, “It’s So Easy” e “Mr. Brownstone”, devastanti e pirotecniche nonostante la mancanza di Slash crei un vuoto abissale nel sound e nemmeno i tre chitarristi chiamati sul palco riescano a colmare la lacuna; a sopperimento del vacuo sentore provato dai fan di vecchia data ci pensa una scenografia spettacolare e un’esibizione esagerata, questa sì degna dei vecchi Guns N’Roses, con ben 36 brani in scaletta e di una durata spropositata che con le sue più di 3 ore e un quarto sfora di gran lunga il programma della manifestazione.

Si procede con la veemenza di un rullo compressore per l’intera durata del concerto, tra i brani (pochi) di “Chinese Democracy”, i pezzi storici tutti cantati con ogni briciola di voce dal pubblico, assoli vari tra cui quello del sempreverde Dizzy Reed – il migliore di tutti lì sul palco -, e qualche cover, dai Rolling Stones agli AC/DC, fino a un’improvvisata versione di “Another brick in the wall” dei Pink Floyd eseguita al pianoforte dal solo Axl prima della meravigliosa “November rain“. Si passa così per “This I love”, “Sorry” e “Street of dreams”, ma anche “Whole lotta rosie” degli AC/DC, “Dead Flowers” degli Stones e soprattutto per “Rocket Queen”, “Knockin’ on heaven’s door”, “Nightrain”, “You could be mine”, “Estranged”, “Live and let die”, “Patience”, “Don’t cry”, “Civil war” e ovviamente “Sweet child o’mine”, probabilmente la più famosa in assoluto della band di Los Angeles che si becca gli applausi deliranti della nuova generazione di fan e i fischi della vecchia guardia a cui non scappa la steccata di DJ Ashba nel riff iniziale, un errore imperdonabile che certamente non avvolge di simpatia il chitarrista dell’Indiana già difficilmente sopportato da chi non ha mai digerito la scissione con Slash.

Al di là di questo lo spettacolo è incredibile, con effetti di luci, fumo, fuochi d’artificio e immagini sul vidiwall, uno spettacolo per gli occhi che entra sapientemente in gioco quando quello per le orecchie cala di qualità, tra qualche imperfezione e rivisitazione in chiave rumorosa dei pezzi che non convince e il problema più grosso, la voce di Axl che prova a lanciare i suoi acuti e qualche volta ci riesce, ma il più delle volte ricorda più il pianto di un neonato che l’istrionismo di un rocker consumato.

Lo spettacolo non accenna a fermarsi neppure quando, passata di gran lunga la mezzanotte molti spettatori si avviano all’uscita e gli addetti alle pulizie che dovranno intervenire dopo cominciano ad alterarsi, la band è esplosiva e l’esibizione è arrogante, sfacciata, schietta e meravigliosamente rumorosa, un’esibizione rock fino nel midollo che si conclude con delle bombe di tamarraggine davvero speciali quando Axl chiama sul palco Sebastian Bach, suo vecchio amico che gli acuti li spara ancora violentemente e trasforma “My Michelle” in un’apoteosi, per poi chiamare un applauso a “Axl fuckin’ Rose” che dopo l’ennesimo frangente strumentale spara le sue ultime cartucce, supportato dall’intera band che dà tutto quello che ha per la conclusione delle conclusioni, una “Paradise city” devastante terminata con fuochi d’artificio, fiamme e coriandoli sparati sulla folla, che esplode, applaude, ringrazia e si avvia verso casa, forse un po’ delusa dallo stato non certo splendente di Axl, ma sicuramente soddisfatta da uno spettacolo dalla portata elettrica incredibile…

Domani sarà il turno di altra musica, altre band e artisti (Slash su tutti), altre emozioni, altro sole cocente e altri applausi, ma se ne riparlerà domattina, ormai è l’una e mezza e andare a dormire con le note di “Paradise city” che ancora riecheggiano tra le trombe di Eustachio è qualcosa di splendido…

 

Written by Emanuele Bertola

Photo by Emanuele Bertola

 

Per leggere il resoconto della prima giornata del Gods of Metal (21 giugno 2012) clicca QUI.

 

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