“Time of the signs” degli Hate Boss – recensione di Emanuele Bertola

“È tutto il viaggio che ti insegno a riconoscere le tracce con cui il mondo ci parla come un grande libro” dice Guglielmo da Baskerville al novizio Adso tra le pagine di uno dei più bei romanzi che la letteratura italiana moderna ricordi.

Era (immaginariamente) il 1327 eppure ancora oggi il mondo continua a seminare indizi da raccogliere, a lasciare i suoi segni lungo la strada, a volte per lanciare allarmi e altre per indicare un sentiero da percorrere perchè, sempre citando Umberto Eco, “l’universo non solo parla delle cose ultime, ma anche di quelle prossime“. La terra ci parla insomma, e noi come Adso dovremmo imparare ad ascoltarla, questo è uno dei concetti alla base del debutto discografico sulla lunghezza del Long Playing degli Hate Boss, band nata a Conegliano due anni or sono e con alle spalle un convincente EP e una moltitudine di serate e festival.

Il significato e la collocazione nel panorama musicale della prima fatica ufficiale del gruppo sta tutta racchiusa nel titolo, “Time of the signs“, “Tempo dei segni”, emblematico per quel che riguarda il concetto dei segnali della terra (oltre che di questi tempi dove i simboli stanno al centro, nel bene o nel male) ed evidente riferimento a quel “Sign o’ the Times” che nell’ormai lontano 1987 consacrava definitivamente un’indiscussa icona degli anni ’80 come Prince. Messaggi significativi quindi, ma anche tanto funk, ritmi ballabili dalla struttura semplice e che resta subito impressa nella memoria, derive dance, ritmi quasi tribali campionati e trasformati in loop ossessivi e qualche sferzata post-rock, con il sintetizzatore ad amalgamare il tutto in 9 brani elettronici da ascoltare con attenzione o semplicemente da ballare senza troppi pensieri per la testa.

Time of the signs” non è esattamente un concept album ma più che altro un album tematico (la differenza è sottile ma sostanziale), non c’è una storia raccontata dai brani del disco e apparentemente non c’è una logica nascosta nella disposizione dei brani se non quella strettamente legata alla continuità musicale, c’è però un tema portante, un filo conduttore che accomuna i pezzi e traccia un percorso.

“Tempo dei segni” dicevamo, ma anche “Tempo dei simboli” e il tema si divide a questo punto su diversi livelli di riflessione: si parte dagli inequivocabili segnali lanciati dalla terra (non ultimo il tremendo terremoto in Giappone) senza però finire nel facile disfattismo, per poi passare ad un discorso sui simboli, sul simbolismo e sulla sua importanza in questi tempi frenetici in cui tutto è categorizzato, tutto sta in una forma geometrica (Shapes), in un codice o una password (Decode), in cui si immagazzinano milioni, miliardi di informazioni compulsivamente come Raymond Babbitt in “Rain man” (Kim Peek) e dove la moda la fa da padrone con i suoi idoli e i suoi emblemi (Monkey).

Un senso di frenesia pervade l’intero album interpretando in maniera splendida questi tempi e i loro simboli, ma “Time of the signs” è anche e soprattutto un ottimo e divertente album elettronico, e gli Hate Boss con i synth ci sanno davvero fare, spaziano da riverberate incursioni chitarristiche a derive quasi techno e trance, sfiorano il dubstep e poi si spiaggiano su una dance e un funk che sanno di feste, di cocktail, di divertimento e di notti passate a ballare, tra pause e ripartenze fulminanti, beat caricati a mille e modulazioni ossessive. Quindi ascoltate i testi, recepitene il messaggio e pensateci un po’ su, ma poi concedetevi una pausa dalle riflessioni, fate ripartire il cd dall’inizio, prendetevi un cuba libre e sotto con le danze!

 

Written by Emanuele Bertola

 

Tracklist “Time of the signs”:

1.Palm Beach

2. Shapes

3. Time of the signs

4. Decode

5. Age of flames

6. Monkey

7. Kim Peek

8. Brighter

9. Sailing

 

 

 

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