“Echo Ono”, album dei Pontiak – recensione di Daniele Mei

Se il tuo sogno è vivere distante tra lande desolate e sconfinate, che siano esse deserto: magari americano, con la vita rarefatta e con cieli immensi sempre blu e senza nuvole, terra rossa, crotali che strisciano, sibilano e rospi cornuti, che esse siano le solitarie montagne degli Appalacchi che sbirciano dall’alto la vicina civiltà americana o che esse siano le regioni del nord più a nord, magari nei sei mesi dove il giorno non arriva mai e i cirri si colorano delle tonalità e delle forme più strane, questo è il disco che fa per te.

E’ un urgente cammino col peyote in corpo, i cieli si trasformano e si colorano, leoni e altri fantasiosi animali spuntano sorridenti o minacciosi, le lune nella notte si moltiplicano e gli alberi si animano: il sole è perennemente all’orizzonte.

E’ una corsa sfrenata ma ancorata a terra, un viaggio mentale, non fisico. Un viaggio nello spazio interstellare nella lentezza della velocità della luce nella vastità dell’universo, con neutrini e quark che ti sbattono sul viso, senza ferirti.

Echo Ono è un album per solitari dentro: quelli che comunque non soffrono di solitudine e vogliono star soli anche in mezzo a milioni di persone, quelli che decidono di correre nel verso opposto intuendo che quei milioni andranno incontro all’apocalisse e al loro annientamento.

I tre fratellini Van, Lain e Jeggins Carney, nativi di Washington DC fanno anch’essi un trip nella storia del rock: prima blues, poi rock, hard rock, stoner, psichedelica, attualizzandolo e mischiandolo al folk, utilizzando la massima cura nello scegliere vecchi strumenti (addirittura tra i due set di batteria spunta una Slingerland del 1946) e nell’impostare strutture e suoni perfetti e funzionali allo scopo.

Risultato: il loro lavoro più diretto di sempre.

Black Sabbath e Pink Floyd, Fleet Foxes e Kyuss, Nebula e Neil Young, Soundgarden e gli Zeppelin si fondono in un sound difficilmente classificabile in un genere definito, e che lo rende vivo e personale.

Si parte in bellezza con “Lions of Least”, bell’esempio di cosa i Pontiak siano in grado di combinare. Sferragliante chitarra, basso potente e pulsante, ritmica ossessiva in un crescendo superlativo.

In “The North Coast” la  potenza frenata è pronta a esplodere: colpisce per la compattezza del suono che porta diretta a “Left with Lights” dove i nostri si inoltrano nello spazio più aperto e denso prima di ridiscendere in terra e tornare a correre con “Across the steppe”.

Parte la bellissima “The Expanding Sky”, psichedelica, folk, una chitarra acustica a rendere il tutto più sognante, un falò e una batteria che inizia a martellare in chiusura.

“Silver shadow” non è da meno, anche se qua le atmosfere diventano più rarefatte e minacciose e si chiudono in un incubo psych, la folkeggiante “Stay Out, What a Sight” cambia completamente direzione e va su arie più benevole.

“Royal Colors” è il sogno prima dell’incubo: la martellante, ossessiva, senza scampo, disorientante infinita “Panoptica”.

Insomma, un gran bel disco.

Pontiak

Echo Ono

Thrill Jockey – 2012

RECODM003

Written by Daniele Mei

Info 

http://brotherspontiak.com/

 

http://youtu.be/dsE9Mpz3mLQ

 

Un pensiero su ““Echo Ono”, album dei Pontiak – recensione di Daniele Mei

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *