“Bag of Bones”, dal romanzo di Stephen King alla serie tv di Mick Garris – recensione di Alessandro Vigliani
Mucchio D’Ossa (Bag of Bones), fortunato romanzo di Stephen King, non è forse il lavoro più adattabile a livello cinematografico e televisivo, vuoi per la natura profondamente intimista dei personaggi, vuoi perché le atmosfere horror o fantastiche vengono meno lasciando spazio ai profondi turbamenti del protagonista principale, sempre in equilibrio sul confine tra sogno e realtà.
Sebbene Mick Garris (già regista di altre trasposizioni cinematografiche delle opere di King) abbia avuto il coraggio di osare, il suo Bag of Bones, saggiamente proposto come mini serie in due puntate per la televisione per il network A&E (scelta giusta, a mio modo di vedere) è un lavoro che convince a metà, giudicabile forse bene, intendiamoci, se il tutto fosse il frutto della fantasia del regista e non se ne avesse di ritorno il paragone con il libro, quantomai, in questo caso, impietoso.
Le differenze, quelle più palesi, sono nelle sensazioni. Ciò che manca è la tensione, l’intensità e il lavoro psicologico nella costruzione dei personaggi, mancanze queste, che a onor del vero sono riscontrabili più per merito della scrittura sopraffina del Re che non per un’effettiva deficienza nel lavoro di Garris.

Risulta frettolosa tutta la bellissima figura di Mattie e di sua figlia Kya, autentiche chiavi di volta del lavoro di King, co protagoniste nel caso del film in una vicenda in cui Noonan è unico solista e troppo spesso lasciato solo in una lunga sequenza di tempi morti. La genesi che porta alla comparsa dei due personaggi è lasciata così in sospeso e quando la maledizione diventa chiara, palese, non vi è quell’attesa palpabile che nel libro cattura l’attenzione del lettore. Anzi, c’è sempre la sensazione di un lieto fine imminente, come se da storia maledetta quella di King si tramutasse, nel film, in una favola macchiata di nero.
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