Sliding down the surface of things … oppure no? – parte 4

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Until the end of the World. Tutte le certezze che gli U2 avevano avuto fino a quel momento, sulla propria unità, sul modo di fare musica, e su cosa fosse o meno rock, erano crollate. Le certezze sulle relazioni affettive erano crollate. Il Muro era crollato e le certezze del Vecchio Mondo con esso. Non c’era nulla da poter salvare. Il solo modo di uscirne liberi e integri era alimentare questa esplosione. Deludere, meravigliare. Ricorda Larry “Alla fine decidemmo che non c’importava di  come i fan avrebbero reagito ad Achtung baby, e se ci avrebbero seguiti in questa nuova direzione. Era un gran disco, e se nessuno lo avesse comprato, sarebbe stato comunque un bel modo di chiudere!”.  Giravano diversi modi di dire in quei giorni agli Hansa Studios: la vita domestica è nemica del rock’n’roll, servire l’era significa tradirla, e soprattutto tutto ciò che sai è sbagliato. Disorientarsi e mettersi in una situazione scomoda: distruggere ciò che gli U2 avevano fatto fino a quel momento. In tutto questo c’era una canzone da scrivere. Per tutti gli anni ’80 Bono era stato tacciato con ironia e sprezzo di essere una sorta di messia,  per il suo impegno.  Adesso era giunto il momento di scendere dalla croce e rigirare la canna dell’ironia. Until the end of the world è scritta dal punto di vista di Giuda che si rivolge a Gesù.

Riassume il senso di colpa e la fragilità delle relazioni finite attraverso la metafora dell’episodio biblico dell’Orto di Getsemani. Sembra perfino ipotizzare una relazione clandestina tra i due protagonisti! “Non ti vedo da un po’, ero giù nella stiva a passare il tempo. L’ultima volta che ci siamo visti eravamo in una stanza buia, eravamo vicini come marito e moglie. Mangiammo e bevemmo vino. Tutti si divertivano, tranne te. Tu parlavi della fine del mondo.”   “Giuda che canta a proposito di Gesù. Cosa si può volere di più?” scherzava Bono. Ma, ricalcando come mai prima il concetto che si ferisce sempre la persona amata, ecco arrivare, come uno schiaffo sui riferimenti biblici, delle immagini chiaramente sessuali “Si abbassa su di me, mi circonda, trabocca oltre il bordo. Con ondate di rimpianto e ondate di gioia, ho teso la mano a chi ho cercato di distruggere. Tu, tu hai detto che mi avresti aspettato fino alla fine del mondo”.

Un modo di parlare del sesso orale? Quando l’idea lirica si materializzò la canzone iniziò a prendere forma, diventando forse il pezzo più teatrale, epico e fascinoso dell’album.  Originariamente era stato pensato per l’omonimo film del regista tedesco Wim WendersFino alla fine del mondo ma come ha ricordato The Edge “Era così potente che chiamammo Wim e gli dicemmo ‘Ok, avrai il pezzo per il film, ma lo vogliamo anche noi per il disco. A, un’ultima cosa, prendiamo in prestito anche il titolo ’. E per lui non ci fu alcun problema!”.

Who’s gonna ride your wild horses?   Alla fine del percorso musicale degli anni ’80, gli U2 erano dei giovani blues men allineati alla tradizione del cantautorato classico. Forse troppo. Ed erano vicinissimi anche al country, ad autori come Scott Walker e Roy Orbison, per il quale Bono e The Edge avevano scritto anche la commovente ballata She’s a mistery to me. Nel country spesso emerge un’immagine crudele della donna che fa sospirare e soffrire l’amato. The Edge, tra le nuove influenze che stava respirando prima di registrare Achtung Baby, teneva quella del country ancora molto in considerazione, soprattutto per l’approccio intimista dei testi, la capacità di esternare con poesia il rancore e l’amore che si confondono tra loro.

E non c’è dubbio che, lavorando gomito a gomito, Bono come scrittore sentisse molto l’influenza emotiva del suo caro amico. Who’s gonna ride your wild horses? Ne è l’esempio perfetto. Nacque proprio in quel periodo di passaggio, ed è uno dei demo realizzati durante il tour australiano di fine decade del 1989. Per molto tempo, a Berlino, fu dura farne qualcosa di valido.

Continuavano a tornare sempre al demo originario. In ogni caso si tratta di una ballata dolce-amara piena di sentimento e di poesia. C’è tutto, e sembra davvero di sentire parlare un uomo che dichiara diffidenza e amore per una donna alla quale, nonostante tante ferite, non riesce a rinunciare, con immagini potenti ed evocative in cui sesso, desiderio, paura dell’abbandono e possesso si confondono tra loro “Sei pericolosa perché sei onesta. Sei pericolosa, non sai cosa vuoi/ Chi cavalcherà i tuoi cavalli selvaggi? Chi annegherà nel tuo mare blu?/ Hai rubato perché ti servivano soldi, e hai ucciso perché volevi vendetta. Mi hai mentito perché te l’ho chiesto io/ Ah, più forte giro, ah-ah il cacciatore bianco peccherà per la tua pelle d’avorio/ Sotto l’albero il fiume ride di te e me. Halleluja, il Paradiso è rosa e le porte che apri io non riesco a richiuderle/ Chi cavalcherà i tuoi cavalli selvaggi? Chi assaggerà le tue labbra d’acqua salata? Chi prenderà il mio posto?”

So Cruel.  “ Fu l’ennesimo tentativo di Bono di scrivere un pezzo per Roy Orbison. La suonavamo sempre in versione acustica, ma era troppo convenzionale. Sostanzialmente è tutta opera di Bono, ma fu un artificio di studio creato da Flood  ( co-produttore, n.d.r.) a risollevarlo. Spostò l’accento del basso e cambiò il ritmo della batteria, rendendolo sincopato”. Al di là della bella fusione musicale tra hip hop e la sublime parte pianistica, così come lo ricorda The Edge, So Cruel è un capolavoro lirico di Bono. Il suo testo più bello e poetico, senza eguali nel raccontare il dolore di un amante respinto eppure così adorante. “Ho sempre avuto un enorme rispetto per le donne. Ma dopo la nascita di Giordan ho compreso la sacralità delle donne ancora di più” ha detto Bono, che nella sua mitologia personale confonde volutamente l’amante, la moglie, l’angelo, la tentazione, la Musa e lo Spirito Divino.

C’è sempre lo spettro della madre Iris,  prematuramente scomparsa, così come la figura idealizzata della moglie Alison, che adesso diventava madre a propria volta. Ma in questa simbologia divina, ora, confluivano anche sentimenti rancorosi provenienti dalle esperienze di divorzio che più persone vicine a lui, non solo il chitarrista della sua band, stavano vivendo. Così, continuando ad attingere al country, anche in So Cruel c’è un immagine tanto divinizzata quanto crudele della donna, così come l’uomo ne viene fuori come un suddito, dipendente in modo quasi masochistico. Eppure c’è un sapore così marcatamente europeo e melanconico nella musica e nel testo che dà al tutto un carattere squisitamente retrò “Abbiamo superato il confine. Chi ha spinto chi? Non importa a te ma importa a me/ Dici che in amore non ci sono regole, oh amore, dolcezza, sei così crudele/Lei indossa il mio amore come un vestito trasparente. Le sue labbra dicono una cosa, i suoi movimenti un’altra/ Oh amore, come un fiore che urla, amore che muore ad ogni ora. Non sai se sia febbre o desiderio, la paura è la droga che ti porta più in alto, mani in Paradiso e dita nel fango/ Siamo schiacciati dai cavalli della lussuria/ Oh amore, a restare con te sarei un pazzo. Oh amore, dolcezza, sei così crudele”.

The Fly.  “Non mi riconoscevo più nella persona che si supponeva io fossi così come mi rappresentavano i media alla fine degli anni ’80. Infondo abbiamo sempre desiderato il successo, non entri in una rock band per caso. Ormai ero diventato un personaggio che stava lì lì per cadere. Per tutti quegli anni abbiamo lottato per dimostrare la nostra autenticità e sincerità, ma ogni volta che si accendevano i riflettori fallivamo.  Senti la pressione, sei in mezzo a questo caos, e ti ritrovi a bere un casino di alcol per alleviare la tensione. Io non sono un samaritano o un messia, non porgo l’altra guancia. E se striscio fuori da un locale alle sei del mattino non voglio sentirmi chiamare ipocrita!”

Bono cercava a tutti i costi di uscirne, prima di deragliare o impazzire. Chi era lui?  Il buon samaritano del rock? L’idealista vestito da cow boy e con la bandiera bianca e la chitarra a tracolla? Un marito e un neo papà? Un musicista? L’uomo che nel 1990 comparve sulla copertina di Rolling Stones che lo votò rock star più sexy? La persona che beveva fino a tardi con gli amici e che frequentava ora il jet set internazionale? Poteva mai essere tutto questo insieme e molto altro? Sì, ed era ora di dimostrarlo. Soprattutto, dimostrare la sciocchezza delle definizioni. In questo era impegnato musicalmente ed esteticamente tutto il gruppo. Se da ragazzini, agli albori degli U2, lui stesso si divertiva con atteggiamenti clowneschi  e performance art à là Andy Warhool, era lì che stava la chiave di tutto anche adesso. Bono sapeva che era l’ora di tirare fuori una lezione importante da quel passato: spesso è possibile riuscire a essere molto più sinceri indossando i panni di un personaggio, perché attraverso la maschera di qualcuno che gli altri credono altro da te puoi scendere meglio a patti con i tuoi lati oscuri e scatenarli con la libertà di non essere giudicato.

E questa lezione ora si applicava con sempre maggiore libertà anche a testi e musica: il surrealismo, l’iperbole ed il nonsense, dichiarare il contrario di ciò che invece sin intende significare, e funziona! Disse Bob Dylan, proprio quando Bono stava iniziando ad affrontare le contraddizioni del successo “Spesso un artista, un vero artista, deve deludere la gente. Non ci si può aspettare che un artista viva all’altezza di ciò che scrive!” E aveva maledettamente ragione! Come può anche il più virtuoso degli uomini, vivere sempre e in ogni momento all’altezza di quelle canzoni profonde ed edificanti che gli U2 realizzavano negli anni ’80!? Nemmeno Bono!

La band era fin dall’inizio alle prese con quello che sembrava un pezzo promettente, Lady With The Spinnin’ Head, con un bel ritmo funky e una combinazione chitarra-tastiera decadente e rock industrial. La canzone sembrava finita ma al tempo stesso mancava qualcosa. Ci lavorarono così tanto che alla fine si trasformò in almeno quattro canzoni diverse: Zoo Station, Until the end of the world, Ultraviolet (Light My Way) e The Fly. Nei giorni in cui a Berlino le session erano improduttive il cantante aveva preso un’ abitudine che lo riportava indietro di quindici anni. S’infilava un paio di occhiali da sole moscoidi che gli aveva procurato il suo addetto al guardaroba e compagno di bevute Fintan Fitzgerarld.

E con quegli occhialoni neri a maschera entrava come nei panni di un personaggio, spiegando le cose con gesti ampi e con voce drammatica. Era la maniera che Bono stava utilizzando per sdrammatizzare una situazione difficile per il gruppo, ma al contempo per sentirsi libero di giocare a gridare il proprio desiderio di fare qualcosa di grandioso, senza aver paura dell’ambizione o della libertà di essere creativi fin in fondo. Così, da un paio d’occhiali da sole, stava avvenendo una mutazione. Stava nascendo La Mosca!

“ A un certo punto a Bono venne davvero l’idea di giocare su un certo tipo di personaggio. Di quelli che raccontano grandi e piccole verità. Perciò pensò di poterci costruire un’intera canzone su. Ci sono personaggi a Dublino, e di certo ce ne sono in ogni città, che se ne stanno appollaiati su uno sgabello da bar e sembra sappiano tutto. Pare perfino che abbiano spie a Mosca e sappiano sempre cosa succede alla Casa Bianca. I così detti ‘filosofi da bar’, che a volte dicono anche cose interessanti. Credo che Bono si sia ispirato a loro”.

Alla spiegazione di The Edge, Bono aggiunse “The Fly è quel genere di personaggio, uno autoproclamatosi esperto di filosofia politica e dell’amore. Mi divertiva l’idea di costruire un testo fatto di tutte quelle verità, assunti lapalissiani, facendo in modo che ogni verso fosse auto-compiuto, come slogan. Fu il mio modo di ammettere il  lato rockstar e mostrare che è altrettanto parte di me, come quello che fino ad allora la gente aveva già visto di Bono. Fu uno sballo vedere le facce della gente a Miami, dove prese il via lo Zoo TV Tour, quando uscii sul palco come ‘La Mosca’, con occhiali e vestito di pelle! Ebbi la sensazione da brivido di ‘oh mio Dio ma allora è vero!?’. Molti pensarono che stessi prendendo in giro lo star system o roba simile. In realtà stavo Ammettendo di essere una rockstar!”

Musicalmente è il pezzo più potente del disco, un vero hard-rock punk hip hop, pieno di distorsioni vocali e chitarristiche: un po’ come i Led Zeppelin che incontrano i Clash che si scontrano con i Massive Attack e i Public Enemy! Poi, mentre ‘La Mosca’ fa le sue dichiarazioni quasi rappate con la voce che sembra davvero il ronzio di un insetto, ecco entrare un ritornello angelico intonato in un falsetto gospel, del tutto inatteso ma perfetto, quel “Amore, brilliamo come una stella che arde, cadiamo dal cielo stanotte”.

Il testo è davvero un punto di forza, che si può forse intendere come un commento ironico al resto del disco. Lo è di sicuro rispetto a quanto Bono stesse cercando di fare per sfatare l’ingombrante immagine di rocker esemplare, una vera contraddizione in termini quando si è una star “Non è un segreto che le stelle cadano dal cielo, non è un segreto che il mondo sia nell’oscurità stanotte/ Non è un segreto che la coscienza a volte può essere un fastidio, non è un segreto che un bugiardo è colui che non crede a nessuno/ Non è un segreto che l’ambizione si mangi le unghie del successo. Ogni artista è un cannibale, ogni poeta un ladro. Tutti quanti uccidono la propria ispirazione, e cantano il proprio dolore”. Scelta come primo singolo dell’album e arrivato sparato al primo posto in Gran Bretagna, il pezzo fu la pubblica svolta degli U2, presentato come il sound di quattro uomini che abbattono il Joshua Tree!

 

Written by Fabio Orefice

fabio.orefice@hotmail.it

 

Fonte

“Into The Heart” di Niall Stokes (2003)

U2 by U2” raccolta di interviste dal 1979 al 2006 ( 2006)

 

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