Dalle Enneadi secondo Plotino: questioni sull’Anima II

Altrettanto chiara è la nostra condizione di uomini: anche noi, infatti, svolgiamo un’attività nel tutto, non solo nell’interscambio di azione e passione fra i corpi, ma altresì perché mettiamo in gioco anche una parte diversa della nostra natura, collegando il simile che è in noi con quello che è fuori di noi. Inoltre, con le nostre anime e disposizioni ci mettiamo in contatto – o, per meglio dire, già lo siamo originariamente – con la regione contigua del mondo dei demoni e con quella che sta ancora oltre, cosicché non c’è aspetto del nostro carattere che possa restare nascosto.– Plotino 

Enneadi - Plotino
Enneadi – Plotino

Plotino (Licopoli, 203/205 – Minturno (o Suio), 270) è considerato l’erede di Platone e padre del neoplatonismo, le informazioni che abbiamo su questo importante filosofo greco provengono dalla Vita di Plotino ad opera dell’allievo Porfirio, inserita come prefazione alle Enneadi.

Porfirio racconta nella biografia: “Dopo che aveva scritto, infatti, non sopportava di ricopiare una seconda volta quello che aveva scritto, anzi neanche lo rileggeva o lo riguardava una sola volta, a causa della vista che non lo aiutava nella lettura. Scriveva senza preoccuparsi della calligrafia, senza separare bene le sillabe e trascurando l’ortografia, perché era preso solo dal pensiero, e continuò così, con meraviglia di noi tutti, fino alla fine. Infatti, dopo aver completato interiormente la riflessione dall’inizio alla fine, metteva per iscritto quello che aveva meditato, scrivendo di getto sulla carta quello che aveva già steso la sua anima, come se copiasse da un libro; pur dialogando con qualcuno e pur facendo lezione, era sempre fedele al piano, in modo tale da compiere il necessario per la lezione senza interrompere il filo del discorso sul tema in esame; quando l’interlocutore si allontanava, senza rivedere lo scritto, per il fatto che, come abbiamo già detto, la vista non gli bastava per la revisione, continuava con il seguito, come se la lezione non avesse causato alcuna interruzione. Restava in se stesso pur essendo con gli altri, e mai allentava questa concentrazione interiore, se non durante il sonno, che pure riduceva al minimo con la frugalità dell’alimentazione – spesso, infatti, non mangiava neanche il pane – e con l’incessante conversione verso l’intelligenza.”

Le Enneadi (in greco antico: Ἐννεάδες, Enneádes) sono composte da sei gruppi di nove trattati ciascuno. Porfirio ordinò i trattati in senso ontologico con lo scopo di tracciare un percorso per il lettore per il raggiungimento del superamento della condizione terrena e, dunque, per giungere alla comprensione della filosofia.

Gli scritti di Plotino hanno ispirato teologi, mistici, cristiani, musulmani, ebrei, gnostici e metafisici pagani.

Dal 9 marzo al 4 maggio abbiamo presentato la prima Enneade con alcuni paragrafi tratti dall’edizione Mondadori del 2012. Abbiamo così attraversato gli argomenti “Che cos’è il vivente e chi è l’uomo”, “Le virtù“, “La dialettica”, “La felicità”, “Se l’essere felice aumenta col tempo”, “Il Bello”, “Il primo bene e tutti gli altri“, “Quali siano e da dove vengono i mali” ed “Il suicidio”.

Dall’8 giugno al 3 agosto abbiamo presentato la seconda Enneade ed i suoi nove trattati: “Il Cielo“, “Il moto celeste“, “Se gli astri hanno un influsso“, “La materia“, “Ciò che è in potenza e ciò che è in atto“, “La sostanza e la qualità”, “La commistione totale“, “La vista, perché le cose lontane appaiono piccole“, “Contro gli gnostici“.

Dal 7 settembre al 2 novembre abbiamo presentato la terza Enneade: “Il Destino”, “La provvidenza I”, “La provvidenza II”, “Il demone che ci ha avuto in sorte”, “Eros”, “L’impassibilità degli esseri incorporei”, “Eternità e tempo”, “La natura, la contemplazione e l’Uno”, “Considerazioni varie”.

Il primo trattato della quarta Enneade è intitolato “La sostanza dell’Anima I”, si estende per soli due paragrafi ed esprime i caratteri essenziali della psiche: l’essere indivisibile e divisibile al contempo ed il suo esser uno e molteplice. Il secondo trattato è intitolato La sostanza dell’Anima II ed è il ventunesimo in ordine di scrittura del sommo Plotino e ha lo scopo di precisare in che senso l’Anima indivisibile diventa divisibile. Il terzo è intitolato “Questioni sull’Anima I” ed è il ventisettesimo nell’ordine temporale che inizia con una sferrata critica agli Stoici i quali sostenevano l’omogeneità dell’Anima e la sua partizione, dunque un problema che riprende l’unicità e la molteplicità; per poi proseguire con varie tematiche quali il concetto delle vite precedenti.

Il quarto trattato prosegue il precedente e ha come titolo “Questioni sull’Anima II” ed è il ventottesimo scritto da Plotino, ma a differenza del terzo prende in considerazione anche temi complementari e marginali. È il trattato più lungo presente nelle Enneadi con i suoi quarantacinque capitoli, ed è così composto: dal primo al quinto paragrafo si tratta del problema della memoria in riferimento all’Anima; dal sesto all’ottavo il problema della memoria in riferimento agli astri; dal nono al tredicesimo si trattano varie questioni concernenti i nessi strutturali fra l’Intelligenza e l’Anima; dal quattordicesimo al diciassettesimo si tratta dell’eternità del tempo in connessione all’Intelligenza ed all’Anima; dal diciottesimo al ventunesimo c’è la problematica concernente le passioni in connessione con l’Anima e il corpo; dal ventiduesimo al ventisettesimo si parte dalla questione della terra dotata di vita per arrivare alla facoltà di sentire e percepire; il ventottesimo riprende la questione delle passioni; il ventinovesimo tratta della questione della vita  in connessione con la luce e il calore; dal trentesimo al trentacinquesimo ci sono i problemi connessi con gli influssi astrali e la simpatia cosmica; dal trentaseiesimo al trentanovesimo si tratta della molteplicità e varietà di potenze; dal quarantesimo al quarantatreesimo ci sono le questioni connesse alla magia; dal quarantaquattresimo al quarantacinquesimo troviamo la questione della contemplazione come liberazione dagli incantesimi.

Di seguito sono riportati il primo, il diciottesimo ed il quarantesimo dei quarantacinque paragrafi del trattato, dunque, si invita all’acquisto del volume riportato in bibliografia per potersi dissetare pienamente.

 

Enneade IV, 4, 1

Plotino - Enneadi - questioni sull'Anima II
Plotino – Enneadi – questioni sull’Anima II

Che cosa dirà e quali ricordi serberà un’Anima, una volta che si trovi nel mondo intelligibile alla presenza di quel tal genere di sostanza?

È coerente affermare che essa si dia alla contemplazione delle realtà da cui è circondata, e che su queste agisca: altrimenti non sarebbe neppure lassù.

Allora, all’Anima non rimarrà nessun ricordo di questo mondo, come per esempio d’essersi dedicata alla filosofia, e d’aver contemplato da quaggiù le realtà superiori?

Certamente, se non è possibile che uno, quando si volge col pensiero a qualcosa, faccia altro oltre a pensare e contemplare quell’oggetto, e se, d’altra parte, nel pensiero non c’è spazio neppure per l’affermazione “ho pensato” – la quale, semmai, avrà luogo solo in un secondo tempo, quando le condizioni sono già mutate –, allora non si darebbe neppure il caso che una pura Anima nell’intelligibile serbi la memoria delle cose che le sono capitate un tempo, quando era ancora qui sulla terra.

Inoltre, risulta che ogni atto di pensiero sia fuori dal tempo, nell’eterno, e d’altra parte anche gli esseri di quel mondo non sono nel tempo; a queste condizioni è impossibile che là ci sia ricordo non solo degli oggetti di quaggiù, ma, in assoluto, di qualsiasi altro.

Lassù ogni cosa è presente: non c’è mutazione, né cambiamento da uno stato all’altro. E allora? Negheremo che ci sia una visione discensiva che procede da genere a specie, o ascendente verso ciò che è universale o superiore?[1] Se pure questa divisione non la si voglia concedere all’Intelligenza a causa della sua attualità e simultaneità, per quale motivo non ammetterla per l’Anima una volta che si trovi lassù? E perché essa non potrebbe divenire un’intuizione unificante di oggetti uniti insieme, come se fosse un essere unitario?

O forse è come se fossero tutti pensieri di molte cose presenti insieme. E, infatti, data la complessità dell’oggetto della visione, complesso e articolato sarà anche l’atto di pensiero, e anzi ci saranno molti atti di pensiero, come molte sono le sensazioni che si hanno di un volto, allorché si guardano gli occhi, il naso e le altre parti.[2]

E quando l’Anima scompone e svolge una realtà unitaria? Questo, invero, si trova già suddiviso nell’Intelligenza, sicché un’operazione del genere è piuttosto un punto d’appoggio. Siccome il prima e il dopo nell’ambito delle forme non si dispongono nel tempo, neppure il pensiero del prima e del dopo avrà valore temporale.

Del resto, questi due termini esprimono anche una certa struttura ordinata, come per esempio quella di una pianta, che incomincia dalle radici e si estende fino in alto, le quali parti, per un osservatore che abbia una visione unitaria, non sono altro che il prima e il poi secondo un certo ordine.[3]

Se, però, un’Anima guarda a una cosa unitaria, e poi si trova ad avere molte cose o addirittura tutte, come potrebbe cogliere la prima e in seguito via via passare alle altre? Certo, la sua facoltà è unica; però si tratta di un’unità che, finendo in altro, si moltiplica, ma non fino al punto di abbracciare tutte le cose in un unico atto di pensiero: i suoi atti, invero, sono unitari, a appartengono tutti a una facoltà stabile, che pure si scinde in una molteplicità di forme. Così, una volta che quello ha perso la sua unità, potrà recepire in sé la natura del molteplice che prima non c’era.[4]

 

Enneadi IV, 4, 18

Si tratta ora di capire se il corpo abbia una facoltà in proprio e viva, certo per la presenza dell’Anima, ma anche grazie a qualche sua specifica prerogativa, oppure se la sua dotazione si riduca alla natura, intesa appunto come ciò che ha commercio col corpo.

Il corpo, quando può contare sulla presenza dell’Anima e della natura, non può certo essere simile a qualcosa di inanimato, o all’aria pervasa dalla luce: assomiglia, piuttosto, all’aria riscaldata.

In verità, il corpo di un animale o di un vegetale è come se avesse l’ombra di un’Anima, e il carattere specifico di un siffatto corpo è soffrire dolore e godere dei piaceri fisici; per noi, invece, un dolore o un piacere di quel tipo entrano a far parte della conoscenza senza alcun coinvolgimento emotivo. Quando dico noi intendo tutto il resto dell’Anima, dato che anche questo determinato corpo non ci è estraneo, ma è nostro, tant’è vero che proprio per questo ce ne prendiamo cura.

Noi, però, non siamo quel corpo, ma neppure ne siamo del tutto immuni, perché esso ci sta addosso e dipende da noi: in tal senso il noi corrisponde alla parte dominante, mentre il corpo è nostro in un senso diverso. Per questo non siamo indifferenti alle sue sofferenze o ai suoi godimenti, e tanto meno lo siamo, quanto più siamo deboli e non riusciamo a mantenere le distanze da esso, e anzi lo consideriamo come la parte più preziosa, l’uomo autentico, in cui, in qualche modo, ci immedesimiamo.[5]

Bisogna, allora, riconoscere che siffatte affezioni non sono proprietà esclusiva di un’Anima, ma anche di un determinato corpo, e di una determinata composizione di Anima e corpo essi insieme.[6] Quando una di queste due realtà è presa unitariamente, in un certo senso, basta a se stessa. Così, per esempio, il corpo da solo quali affezioni potrebbe mai subire, se non fosse neppure animato? Inoltre, un’eventuale divisione non lo riguarderebbe: riguarderebbe piuttosto l’unificazione che è dentro di essa.[7]

E lo stesso vale per l’Anima presa isolatamente, la quale in questa condizione rifuggirebbe da ogni tipo di affezione. Ma quando due realtà vogliono diventare una sola, giacché si avvalgono di un’unità fittizia, nella quale l’unità non riesce, trovano probabilmente in questo l’origine del dolore. Quando parlo di due realtà, non mi riferisco a due corpi – i quali, infatti, condividerebbero un’unica natura –, ma al tentativo di mettersi insieme di due nature diverse ed eterogenee, e quella inferiore cerca di prendere qualcosa dalla superiore e, però, in tale tentativo non riesce ad afferrare proprio quella parte superiore, ma solo una sua traccia, cosicché si riduce a essere dualità e unità, ossia qualcosa che sta in mezzo fra la natura originaria e quella che non ha potuto avere.

Da qui trae origine l’indecisione, perché un tale essere si trova coinvolto in una coesistenza precaria e niente affatto sicura, dibattuto fra un opposto e l’altro. Dunque, oscillando fra l’alto e il basso, quando si lascia trascinare verso il basso esprimerà tutta la sua sofferenza e, invece, quando sale verso l’alto esprimerà il suo desiderio di comunione.[8]

 

Enneade IV, 4, 40

E come si spiega la magia?

Grazie al principio della simpatia, della naturale armonia fra i simili, dell’opposizione fra le cose dissimili, nonché della sinergia delle pur varie e molteplici potenze a vantaggio dell’unico vivente.

In verità, molti sono gli eventi magici che si verificano anche senza l’apporto di particolari artifizi; anzi, la vera magia è il principio dell’amicizia e della contesa che si trova nell’universo.[9]

Questo, appunto, costituisce il primo mago e incantatore,[10] e gli uomini che ben lo conoscono lo sfruttano a proprio vantaggio lo sfruttano a proprio vantaggio per filtri e fatture. In tal modo, poiché amare è una cosa naturale e gli agenti che stimolano l’amore suscitano un’attrazione vicendevole, è sorta un’arte magica a sostegno dell’amore che applica a ciascun ingrediente di natura specifica dotato di forza attrattiva e portatore di proprietà erotiche, col risultato di congiungere Anima e Anima, come se si unissero fra loro piante diverse.

Grazie a determinate figure che godono di certi poteri, e anche disponendo se stessi in certe pose, senza rumore, gli uomini traggono su se stessi alcune facoltà, sfruttando il fatto di trovarsi in un universo unitario e d’essere protesi a questa unità. Ebbene, se, per ipotesi, si volesse porre un individuo fuori dell’universo, questi non potrebbe con le sue fatture e i suoi incantesimi evocare o convogliare su di sé siffatti poteri. Però, dato che nel nostro caso non esercita la sua attività, per così dire, in un luogo diverso dal tutto, è in grado di agire perché non ignora la via per la quale nel vivente una parte subisce attrazione da un’altra: si tratta, naturalmente, di formule magiche cantate, di una determinata inflessione di voce, nonché di una certa disposizione assunta dall’operatore di magie.

Queste cose, infatti, hanno un potere attrattivo, come gli atteggiamenti dismessi e i lamenti. Fin qui, però, siamo nel campo dell’Anima irrazionale, perché né l’Anima razionale né la facoltà della scelta si lasciano sedurre dalla musica. Un tale incantesimo, dunque, non deve stupire, perché alla gente piace essere ammaliata, anche se non rivolge esplicitamente questa richiesta ai musicisti.

D’altra parte, non si deve neppure credere che le altre preghiere siano ascoltate da una consapevole volontà. Questa, del resto, non riguarda neppure chi è sotto influsso di incantesimi, tanto è vero che, quando un serpente incanta un uomo, costui perde coscienza e sensibilità, e la vittima riconosce quello che ha subito solo dopo che l’ha subito. In tutto questo, però, non c’è alcun coinvolgimento dell’egemonico. In ogni caso, dall’astro a cui è rivolta la preghiera una qualche grazia scende sempre, o per la persona che prega o per un altro uomo.[11]

 

Note

[1] Allusione ai due procedimenti platonici: diairetico e sinottico.

[2] Nel mondo intelligibile l’Anima coglie la realtà con una intuizione unitaria, e vede l’Uno dispiegato nel molteplice e il molteplice nell’unità, come quando si guarda un volto, cogliendone l’unità nelle molteplici parti che lo formano.

[3] Questo secondo argomento spiega come il metodo diairetico, che implica una suddivisione dell’intelligibile secondo le sue varie articolazioni, non implichi un passaggio dal prima al dopo in dimensione temporale, bensì una intuizione della scansione ontologica di parti implicita nella struttura.

[4] L’Anima può conoscere molte cose in vari modi in quanto ha una unità che le permette di diventare molte cose, restando se stessa pur accogliendo il molteplice, secondo quel nesso dinamico-relazionale che si dispiega già nell’ipostasi dell’Intelligenza in modo paradigmatico, e che nell’Anima si ripete come immagine.

[5] Il corpo ci appartiene come strumento.

[6] Da tenere presente la triplice distinzione che fa Plotino: Anima, corpo determinato e composto di Anima e corpo detto vivente.

[7] Nell’ottica henologica la divisione dell’unità di una cosa corrisponde alla divisione della realtà e dell’essere della cosa medesima, in quanto l’essere delle cose dipende dalla loro unità. Si ricordi che, mentre per il paradigma ontologico una cosa in quanto è, di conseguenza, è una (ens et unum convertuntur), nel paradigma henologico, all’opposto, una cosa in quanto è una, necessariamente di conseguenza è. Il termine “henologia” (dal greco ἕν, uno) è stato coniato dal filosofo francese Étienne Gilson (Parigi, 13 giugno 1884 – Auxerre, 19 settembre 1978) ed introdotto in Italia dal filosofo italiano Giovanni Reale (Candia Lomellina, 15 aprile 1931 – Luino, 15 ottobre 2014). Tra i maggiori filosofi che hanno trattato in maniera esplicita l’Uno troviamo Parmenide, Platone, Plotino, Cusano nella storia della filosofia occidentale, ma la tradizione risale al secondo millennio a. C. con i Rig Veda (gli inni dei Veda) composti in forma arcaica di sanscrito. Il concetto di Uno è arrivato in occidente grazie ai sacerdoti egizi ed insegnato a Pitagora. La stessa parola Ra è un geroglifico che rappresenta il simbolo dell’Unità.

[8] L’analisi del piacere e del dolore sarà poi sviluppata nel paragrafo 19. Piacere e dolore sono affezioni del corpo che noi come Anima percepiamo a livello conoscitivo.

[9] Questo concetto lo troviamo nel filosofo greco (nato ad Agrigento) Empedocle del quale ci rimangono parziali due soli poemi “Sulla natura” e “Purificazioni”: “E non finiscono mai, queste cose che perfettamente trasmutano, ora di riunirsi tutte in uno per azione di Amore,/ ora di essere trascinate ognuna per vie opposte dall’ostilità di Contesa

[10] Platone, Simposio.

[11] Nel paragrafo 41 Plotino principia: “Né il Sole né gli astri ascoltano le preghiere, e quando qualcosa avviene secondo una preghiera, è per effetto della simpatia fra le parti, come in una corda in tensione, nella quale un movimento nella parte bassa si ripercuote in alto; anzi, certe volte, quando una corda è messa in vibrazione, è come se un’altra ne avesse percezione in ragione di una certa consonanza, e per il fatto di essere accordate su un unico accordo.”

 

Info

Rubrica Dalle Enneadi secondo Plotino

 

Bibliografia

“Enneadi” di Plotino, Arnoldo Mondadori Edizioni, 2012. Traduzione di Roberto Radice. Saggio introduttivo, prefazioni e note di commento di Giovanni Reale.

 

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