“Il cliente” di Asghar Farhadi: i palazzi che crollano e il teatro che edifica

“A play is made by sensing how the forces in life simulate ignorance – you set free the concealed irony, the deadly joke” – Arthur Miller

Il cliente di Asghar Farhadi

È la straordinaria onestà e pulizia narrativa di Asghar Farhadi a fare de Il cliente un ottimo ritratto, vivo ed inevitabilmente crudo, dei tempi moderni.

Il regista iraniano con estreme, rapide e piuttosto geometriche sequenze mette in scena le tre terribili categorie che nessuno oggi riesce a toccare in maniera davvero lucida. Al di là della retorica, delle frasi rubate ad altri intellettuali e rimaneggiate a proprio piacimento, al di là del cinismo populista con cui si potrebbe liquidare la questione rifugiandosi in una parlata postmoderna e saccente, nessuno ancora sa esattamente di cosa si parli quando entrano in gioco parole come morale, borghesia, questione di genere, questione generazionale.

La Teheran di Farhadi è una città vertiginosamente occidentalizzata spaccata tra la violenza di una modernità acerba e la violenza di un conservatorismo piuttosto radicale, non è casuale che il regista giochi intrecciandola anche scenograficamente con la New York tutta impalcature che i protagonisti, marito e moglie, due attori giovani e coraggiosi, portano in scena in teatro con Morte di un commesso viaggiatore di Miller.

Se da un lato le prime inquadrature ci rivelano l’agitazione di questa coppia che deve abbandonare la propria casa perché il palazzo sta crollando sventrato dagli operai che di fianco devono edificarne un altro – e qui è il senso della modernità violenta che entra minando alle basi il suo stesso futuro – dall’altro Emad (Shahab Hosseini) e Raana (Taraneh Alidoosti) si muovono ogni sera su un palcoscenico che ha per scenografia tubi metallici di impalcature – ed ecco il senso della cultura, del teatro che è assemblea di donne e uomini e che per questo struttura case oltre la mente e il corpo -.

Se da un lato c’è la New York borghese con il suo capitalismo che cresce e divora le vite dei clienticommessi viaggiatori, dall’altro c’è la Teheran della nuova borghesia con il suo battito occidentalista ancora incerto: forse è davvero così inadatta oggi questa parola borghesia per descrivere una classe ambigua che vive di ambigui rapporti economici, sociali, culturali.

Cosa sconvolge una moglie e un marito, due attori immersi nell’umanità del proprio mestiere?

La violenza sulla donna.

L’immoralità della violenza sul corpo, il dovere di resistere e di adeguarsi agli sguardi borghesi dei vicini che morbosi vogliono sapere, capire, imputare.

Il cliente

Il dovere di riconoscere che il corpo delle donne non è un problema delle donne, ma degli uomini. La terribile consapevolezza che non è nella generazione precedente, patriarcale, maschile, la forza della società.

Farhadi usa uno schema narrativo circolare: la rottura dell’equilibrio della coppia comincia nel palazzo che sta crollando e lì, di fatto, si conclude aprendosi ad infinite possibilità per i due protagonisti. La violenza sulla donna nel mezzo, a chiudere il cerchio nella stessa stanza pericolante e con le mura spaccate, la vendetta goffa del suo compagno nei confronti dell’assalitore anziano che l’ha confusa con una prostituta, quindi con un corpo di donna in vendita.

Il regista è abile nel rendere impossibile qualsiasi proiezione dello spettatore sui personaggi maschili: non è possibile una identificazione con una vittima o con un carnefice. Emad, che insegna a dei ragazzi materie umanistiche con passione, dopo la violenza subita da Raana, comincia ad invadere l’intimità di chi a suo avviso gli ha mancato di rispetto in un crescendo di pensieri e di azioni che hanno sempre più l’obiettivo morale di vendicare il torto.

Non è però per Raana che Emad si vendica goffamente del vecchio cliente ma per se stesso. Nonostante rappresenti la borghesia moderna, Emad è un conservatore: pensa al suo onore di marito cui è stata toccata una proprietà, la moglie e anche la casa. Emad pensa al proprio obbligo morale: un buon marito deve punire l’aggressore, per questo, non tanto per il dolore di Raana, solo per questo avvia una caccia all’uomo per farsi giustizia privata.

Eppure, non ci si aspetterebbe forse da un artista una visione più acuta dell’umanità?

Emad si trasforma, diventa brutale e violento forse anche più violento e brutale dello stesso aggressore. Si accanisce, pretende e arriva addirittura a redarguire Raana come se la questione non riguardasse più lei o non le fosse mai davvero appartenuta.

La figura della donna si staglia distaccandosi, come una striscia di luce su un fondo oscuro ed è la sua presenza a richiamare il necessario chiaroscuro.

Il cliente di Asghar Farhadi

Un cast di attori meravigliosamente intensi, affiatati, che si muovono decisi (tra cui Babak Karimi, Mehdi Koushki, Emad Emami, Farid Sajjadi Hosseini ,Mina Sadati, Maral Bani Adam, Shirin Agkakashi). Tutti, nessuno escluso, capaci di centrare il proprio rapporto con l’altro nell’economia della storia.

Merita una breve riflessione a parte la scelta del regista di dare una forte dignità al momento della messinscena nel teatro: come se lo spettacolo che Raana ed Emad si sforzano di porgere al pubblico nonostante la censura fosse un altro personaggio. Sono così freschi – e per questo splendidi – i momenti in cui vediamo gli attori muoversi sul palco o dietro le quinte, sempre presenti sia nella dimensione della rappresentazione sia in quella delle loro vite (rappresentazioni anche queste perché si tratta un passaggio triplo: dalla persona alla persona-attore che recita il ruolo cinematografico dell’attore al personaggio cinematografico dell’attore che recita davanti ad un altro pubblico).

Si tratta di una vera e propria catena sospesa tra la mistificazione e la carnalità della vita e non è un caso che la scena finale si chiuda nel riflesso di uno specchio. Ed è davvero  indimenticabile la scena in cui una delle attrici lancia la propria risata dalla quinta e nel frattempo, mentre attende di rientrare in scena, si volta e torna madre mentre parla con il figlio piccolo dei programmi per la serata.

La fotografia concorre a creare tensioni sempre accolte piuttosto lucidamente dalla cinepresa, così come l’impostazione geometrica delle posizioni di oggetti e personaggi viene rafforzata dai tagli di luci e silenzi ottimamente dosati.

Il cliente è un film che non risolve le tensioni che evidenzia, ma che anzi getta un’ombra di morte e di inquietante conflittualità apparentemente solo conoscibile e non superabile. È un film che si distacca in qualche modo dalla società che rappresenta e che non può imporsi uno slancio utopico profondo, ma che può solo limitarsi a lievi e vitali sguardi ancora desiderosi di capirsi e incontrarsi.

È lo sguardo di un regista che forse non accetta del proprio tempo questo: che per essere uomini oggi sia necessario procedere per sottrazione, per esclusione e per antitesi alla violenza e a comportamenti che non sono solo generazionali ma ben presenti, antropologicamente radicati nella coscienza collettiva.

 

Written by Irene Gianeselli

 

 

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