Intervista di Irene Gianeselli all’attore Luca Micheletti: “Le variazioni Goldberg” tra fede, teatro e responsabilità

Luca Micheletti, regista, attore e drammaturgo, è nato a Brescia. “Figlio d’arte” da quattro generazioni, fin da giovanissimo si divide fra la ricerca teatrale e quella scientifica.

Luca Micheletti

Ha un dottorato di ricerca in Italianistica conseguito alla Sapienza Università di Roma dove si è dedicato all’indagine del teatro proibito rinascimentale. Nel 2011 vince il Premio UBU per il suo lavoro nella Resistibile ascesa di Arturo Ui di Brecht (prod. ERT / Teatro di Roma, Premio della Critica 2011), dove è Dramaturg e attore al fianco di Umberto Orsini. Lo spettacolo gli vale inoltre una nomination al Premio Le Maschere del Teatro Italiano. Nel 2014 firma regia e drammaturgia della Metamorfosi di Kafka per il CTB Teatro Stabile di Brescia ed ERT, con Laura Curino e Dario Cantarelli. Nel 2013 dirige Umberto Orsini nelle  Memorie di Ivan Karamazov dal romanzo di Dostoevskij. Nel 2012 Luca Ronconi lo chiama al suo Laboratorio per la Biennale di Venezia Teatro a dirigere uno studio su Questa sera si recita a soggetto di Pirandello.

Recita nella Solitudine dei campi di cotone, in Voci sorde Sallinger di Koltès (Teatro di Roma), con la regia di Claudio Longhi. Per il Teatro Stabile di Napoli è Amleto nel progetto di Hubert Westkemper Giorno di morte nella storia di Amleto ancora di Koltès, ed è inoltre al Festival dei Due Mondi di Spoleto come protagonista di A piedi nudi nel parco di Simon. Regista stabile della Compagnia teatrale I Guitti, negli ultimi anni ha diretto decine di spettacoli di autori classici e contemporanei, oltre a diversi copioni suoi. Fra questi, Ritorno a Deepwater è finalista al Premio Riccione Pier Vittorio Tondelli 2011. Al cinema è diretto da Marco Bellocchio e Renato De Maria. Si occupa anche di didattica teatrale in ambito scolastico, accademico e carcerario. Svariate le sue traduzioni per la scena e non solo, fra gli altri: Molière, Marivaux, Hugo, Cocteau, Valéry, Vian (ed. GAM 2008), Ramuz (ed. GAM 2012), Koltès (Diabasis 2013), Kafka (Sedizioni 2014). Tutta la felicità (Sedizioni 2015) è il suo primo romanzo.  Nel 2015, per il CTB, firma regia e drammaturgia di Mephisto. Ritratto d’artista come angelo caduto dal romanzo di Klaus Mann, interpretando il ruolo del protagonista al fianco di Federica Fracassi. Nel gennaio 2016 è vincitore del Premio Internazionale Luigi Pirandello per meriti acquisiti in campo teatrale. Renato De Maria lo dirige al cinema nel ruolo di Luciano Lutring in Italian Gangsters (opera in concorso alla 72ͣ  Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia – Orizzonti). Sempre nel 2016 ha partecipato alla 73ͣ  Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia per presentare il cortometraggio diretto da Marco Bellocchio di cui è protagonista, Pagliacci, scelto per aprire la 31esima Settimana internazionale della critica.

Luca Micheletti aveva concesso ad Oubliette Magazine una intervista nel giugno del 2015 raccontando la sua esperienza di intellettuale e di uomo di teatro, il suo lavoro su Kafka, l’amore per “Histoire du Soldat” che l’ha portato al suo primo romanzo, gli approdi futuri della sua ricerca e lo spettacolo Mephisto.

In questo nuovo incontro Luca Micheletti in esclusiva parla del suo ultimo progetto, Le variazioni Goldberg in scena al Teatro Franco Parenti di Milano dal 3 al 13 novembre 2016. Un evento teatrale di straordinaria rilevanza: il testo di Tabori incontra oggi per la prima volta il pubblico italiano.

 

I.G.: Dal 3 al 13 novembre sarai in scena con “Le variazioni Goldberg” di George Tabori al Teatro Franco Parenti di Milano. Perché hai scelto questo testo?

Luca Micheletti

Luca Micheletti: Lo spettacolo nasce come coproduzione fra il Teatro Franco Parenti e la Compagnia teatrale I Guitti, che ha condotto lì un percorso residenziale fin da prima dell’estate. Prima ancora di rispondere su com’è nato il mio interesse per il testo di Tabori, vorrei dire di quanto prezioso sia stato l’incontro fra queste due realtà: uno dei più grandi teatri d’Italia e una compagnia dalla storia antica, le cui origini si allacciano al teatro d’arte dei padiglioni nomadi, quello che mi ha dato le origini. Credo sia anche all’insegna di questa natura “scarrozzante” che condividiamo, sebbene per ragioni e percorsi diversi, che Andrée Ruth Shammah ha voluto credere con me in questo progetto – figliato dal successo che Mephisto ha avuto anche a Milano la scorsa stagione – invitandomi a far nascere nel teatro che dirige uno spettacolo delicato e violento come quello che ho costruito a partire dal tormentato testo di Tabori. Perché l’ho scelto? Trovo sia il momento giusto perché venga rappresentato. Non è mai stato portato in scena in Italia prima d’ora eppure è stato scritto venticinque anni fa, in Europa è ormai un classico. Nel 1994 Ingmar Bergman lo allestì riconoscendogli un’inquietante crucialità e credo che oggi ancor di più sia immediato attribuirgliela. Infatti, Le variazioni Goldberg sono una riflessione sui contradditori rapporti dell’uomo con la religione. O con (e fra) le religioni, specie quelle “del Libro”. Si parte da una domanda apparentemente immediata: come interpretare il testo sacro? Il verbo interpretare chiama in causa, con un cortocircuito sulle prime divertito, il teatro stesso, per sua natura terreno d’indagine d’ogni possibile interpretazione. Ma il discorso non è blandamente metateatrale. Il metateatro è qui diretta citazione barocca, non nevrosi post-pirandelliana: è il gioco della vita, il “theatrum mundi”: espressione bifronte dai secoli dei secoli (il mondo è palcoscenico o il palcoscenico è il mondo?). Tutta la gerarchia teatrale è prestata ad incarnare quella celeste: il regista è ovviamente un demiurgo capriccioso e imperscrutabile, gli attori sono i suoi angeli divisi tra fedeli e ribelli, e l’umanità è invece rappresentata dall’assistente alla regia, la cui funzione e il cui nome, Goldberg, sono gravidi di simbolismo. L’essere umano è infatti osservato come una sorta di solerte esecutore delle volontà superne, spesso impiegato in compiti il cui senso ignora o disapprova, ma che tenta in ogni caso di sottomettersi al suo Dio, di assecondarlo, di farlo ragionare, perfino di prenderne il posto. Io ho addirittura scelto che Goldberg sia interpretato da una donna (Marcella Romei), per conferire a questo personaggio un carattere ancor più universale e trasversale. Tabori era ebreo; e il testo è espressione di un rapporto con la divinità molto conflittuale, che interpella, problematizza, mette in discussione, tipico dell’ebraismo appunto. Lo stesso nome di “Goldberg” è qui scelto anche poiché emblematicamente evocativo di un’onomastica ebraica; e le “variazioni” cui il titolo allude sono anche le mille possibili interpretazioni di un tema che è appunto quello della fede in Dio, della ricerca di sé e dell’ebraismo come condizione esistenziale. È evidente d’altra parte che lo scoperto riferimento all’opera forse più imperscrutabile e misteriosa di Bach – sommo artefice dell’“armonia” universale – deve avere un significato preciso, in questo gioco di specchi barocco elaborato in piena post-modernità. Cioran chiosò: «Se c’è qualcuno che deve tutto a Bach, questi è proprio Dio»… Per di più, la rappresentazione ha luogo a Gerusalemme, città simbolo dell’ebraismo e, al contempo, del conflitto politico-religioso.

 

I.G.: La coordinata geografica che offre Tabori è piuttosto feroce: Gerusalemme è sempre il baricentro di un conflitto mondiale o è piuttosto il modello utopico, arcadico, di una morte – anche teatrale – solo apparente?

Luca Micheletti - Compagnia de Le Variazioni Goldberg

Luca Micheletti: Ambientare l’opera a Gerusalemme non mi sembra una scelta di per sé feroce, piuttosto espressione di un’arte viva, attenta al qui ed ora ma, al contempo, non dimentica del passato remoto. Tabori ha sempre praticato una scrittura senza sconti e senza mezzi termini. Un testo sull’ebraismo, che indaga tra l’altro i suoi rapporti con le altre religioni – quella cristiana in particolare – e mette a tema in maniera tanto urgente il rinvenimento d’una condivisa identità religiosa occidentale, non poteva che essere ambientato a Gerusalemme, oggi. E non è affatto una città dell’utopia. Gerusalemme non è un “non-luogo” ideale, ma semmai un cronotopo (in senso bachtiniano) che condensa il tempo storico in un determinato spazio, teatro di eventi concreti tanto quanto di avventure spirituali, dove gli uni hanno determinato e consentito le altre, e viceversa.

 

I.G.: Come si arriva ad interpretare il conflitto in questo testo?

Luca Micheletti: Ogni storia è di per se stessa l’articolarsi di un conflitto. La storia della Creazione, parte anch’essa da un’opposizione: la luce e le tenebre. In questo testo ci sono diversi livelli di conflitto. Quello di natura teologica (Dio contro l’uomo, l’uomo contro Dio, Dio contro Dio, e poi una religione contro l’altra, naturalmente, nel nome di una diversa interpretazione delle Scritture, il significato della preghiera e molto altro); quello di natura identitaria (l’ebraismo come destino, l’eredità della Shoah, il confronto con un Cristo ebraico); quello di natura estetica (che investe come sempre il livello etico: rappresentabilità/iconoclastia, formalismo/pathos, addirittura Brecht/Strasberg…). È una sorta di abbecedario di temi, di sacra rappresentazione che fa il verso alla “nuova scena” novecentesca, cui la chiave umoristica propria dell’autore e del genere, lungi dal levar forza, conferisce una violenza inaudita e una “scorrettezza politica” al limite del blasfemo: e questo proprio poiché vengono fatti confliggere in continuazione i livelli semantici del sacro e del teatrale. A volte essi si confondono (nel rito), altre volte si distanziano fino a svuotarsi reciprocamente di senso. Tabori fa un uso disinibito (ma assai colto ed avvertito) di simboli e simbologie differenti; un livello di lettura ne contiene un altro, e così via, in un gioco di scatole cinesi (o di mise en abyme) che è anche un pericolosissimo, ardimentoso e utile slalom nella storia e nei buchi neri delle religioni e dei conflitti in nome delle religioni.

 

I.G.: In un testo come questo ha un peso forte la parola.

Luca Micheletti: Non potrebbe essere diversamente, del resto ci si occupa della Parola con la P maiuscola e, per giunta, in una prospettiva in tutto ebraica. C’è chi ha detto che lo studio della Torah inizi e finisca con lo studio della lingua ebraica, si risolva in questo studio infinito. Chiaramente, questo è un livello d’analisi di natura analogica, il testo di Tabori è scritto in inglese e poi tradotto e rifinito in tedesco (secondo il costume dell’autore)… Ma il punto è che la parola la fa da padrona, anche in termini drammaturgici e narrativi, non solo stilistici. Dalla parola scritta (la Scrittura) tutti sono soggiogati; lo stesso personaggio di Mr. Jay, il dio-regista di questa farsa tragica: anche lui è legato a quel che è scritto e si scervella per dargli una forma, fin dal mattino della Creazione. È l’intelligente e paradossale presa in giro taboriana della dittatura del testo in teatro, ma al contempo, il ribadire la sua centralità ineludibile. Testori chiosava che «la morte della parola (della ‘letteratura’), infinite volte decretata, ha dovuto altrettante volte esser rinnegata»; e ciò poiché il «luogo deputato» del teatro «non è scenico, ma verbale». Un «luogo verbale» che per altro non esclude affatto il corpo, anzi «la parola del teatro è prima di tutto, orrendamente (insopportabilmente) fisiologica». Credo che questo testo racconti proprio la compromissione carnale della parola, il conato estremo a far di essa materia («il Verbo si fece Carne») e la risposta della materia che tenta invano la strada opposta, verso il Verbo. Il teatro è l’ospizio ideale per questa lotta, luogo in cui si tenta di raccontare l’infinito con mezzi finiti e, allo stesso tempo, luogo in cui qualsiasi infinità è riportata a misura di finitudine. Il luogo in cui tutto “cade”.

 

I.G.: Con “questa” (di questo testo) parola si riesce ad arrivare a ciò che Artaud definiva «un unico linguaggio, a metà strada tra gesto e pensiero»? Quali sono le peculiarità di questa drammaturgia?

Luca Micheletti - Claudia Scaravonati

Luca Micheletti: Ogni opera scenica è imperfetta e non può esaurire una vocazione. Senza dubbio un pensiero sulla parola fa parte di questo testo che, d’altra parte, mette a tema la questione ma non la mette in pratica direttamente avvalendosi stilisticamente di una lingua lirica e tormentata: anzi, il pedale linguistico del copione non è affatto magico od oscuro, bensì conversazionale e apparentemente semplice, e però sincopato da paradossi e continui ribaltamenti contestuali. Per questo Kafka è stato il grande maestro di Tabori: lo scrittore dalla lingua piana, dei dialoghi diretti e apparentemente immediati, ma venati di un mistero imperscrutabile, continuamente alla mercè dell’antifrasi e del sovvertimento logico. In termini più stringenti: Tabori, anche se era per un teatro delle passioni non affatto svuotato di energie immedesimative, sul piano drammaturgico e vocazionale è stato un post-brechtiano. Collocandosi in questa linea, a maggior ragione in questo copione che ho già definito un’opera pienamente post-modernista per gusto e conformazione – ovvero lavoro imperniato sull’ironia (il “Witz” ebraico come ordine del mondo, difesa e arma di conoscenza) e sul citazionismo (sono stati portati ad affiorare i riferimenti tra le righe, e fra gli altri riconosciamo chiaramente Dostoevskij, Kafka, Freud, Canetti…) – Tabori compie uno sforzo metalinguistico, e non soltanto perché si parla di teatro in teatro, ma perché si parla del parlare, delle parole e della loro interpretazione, del proliferare anzi delle interpretazioni fino all’incontro con il caos assoluto della bestemmia e del silenzio. E inoltre, non da ultimo, c’è da considerare che Tabori ha scritto questo testo sulla base di improvvisazioni dirette compiute con la sua compagnia a Vienna nel 1991, quando l’ha messo in scena la prima volta con la sua regia. Il copione registra anche questa storia compositiva ibridata con invenzioni del momento e profondamente calata sugli interpreti. Non dico sia proprio un mero canovaccio, ma è senza dubbio ed evidentemente l’esito di un lavoro collettivo nato dalla prassi scenica e poi precipitato sulla pagina. Ho scelto anche io una strada analoga, senza sentirmi legato ad una lettera testuale così aperta e nata appunto in un contesto così libero. Avvalendomi della sapiente traduzione messa a punto da Marco Castellari e Laura Forti, ho poi costruito con l’ottima troupe che mi ha seguito in questa impresa (oltre alla già citata Marcella, Michele Nani, Pietro de Pascalis, Claudia Scaravonati e il soprano Barbara Costa, qui sorprendentemente ed efficacemente impegnata anche come attrice) una drammaturgia peculiare e pensata su questo gruppo d’interpreti, tagliando qualcosa e riassestando altro, sulla base di un’efficacia scenica che, su un materiale del genere, è quanto mai variabile e determinata dal magnetismo e dalle caratteristiche specifiche della compagnia che lo porta in scena. Tabori lavorava così e devo dire che è stato fondamentale seguirlo anche assecondando, mutatis mutandis, questa sua modalità operativa.

 

I.G.: Il titolo rimanda alle Variazioni di Bach. Come si compenetrano nel testo o nella regia l’eco della dimensione musicale e quella della parola che esprime conflitti così radicati nell’umanità?

Luca Micheletti: Bach ha immaginato e composto trenta variazioni su un’aria che viene esposta all’inizio e poi ripresa alla fine del ciclo. Fra questi alfa e omega, le trenta variazioni costituiscono come una sorta di attraversamento di tutte le possibilità dell’essere, che compie un giro completo nella materia prima di ritornare allo spirito. Le variazioni Goldberg di Bach sono quindi un riferimento non peregrino ad una creazione artistica che ha in sé la vocazione dell’opera-mondo e che ben si addice a prestare il suo titolo alla storia di un generico signor G. (Goldberg!, appunto), rappresentante dell’intera umanità, alle prese con il disegno apparentemente perfetto ma concretamente perfettibile e, anzi, continuamente variabile, della Storia Universale. La musica di Bach è cristallina armonia, summa e conseguimento dei vertici dell’umano: è chiaro che Tabori usa il titolo anche in termini paradossali e apodittici. Ma l’opera teatrale ha di fatto un legame molto stretto con la musica, al di là del titolo: vi sono alcune canzoni e addirittura Tabori vorrebbe in scena un gruppo rock. Io, sebbene anche il rock non manchi, in scena ho messo un pianoforte, che viene suonato dal vivo da Rossella Spinosa, anche autrice delle musiche originali (perché non c’è solo Bach, appunto…). Non a caso, insieme allo scenografo Csaba Antal, ho deciso di ambientare lo spettacolo in una camera anecoica, ovvero lo spazio del silenzio assoluto in terra, inesperibile dagli esseri umani che sentiranno sempre se stessi (il cuore che batte, lo scorrere del sangue), ma comunque l’unico luogo in cui non può essere registrato nemmeno il “rumore dell’universo”: una specie di dimensione pre-Big Bang in cui tutto deve ancora avere luogo, significativamente correlata con un palcoscenico vuoto. Del resto le camere anecoiche sono anche usate per registrazioni ed esperimenti musicali: l’insonorizzazione è anche spesso il luogo della musica assoluta. Si pensi anche solo all’iconografia più nota dell’ormai mitologico Glenn Gould (la cui esecuzione delle “Goldberg” Tabori vorrebbe fosse diffusa durante lo spettacolo) che cerca nella sala di registrazione la cripta fuori dal tempo e dallo spazio per celebrare l’atto musicale ideale. Il peso che ha la riflessione sulla Parola come musica universale (e la sua negazione), però, è in qualche modo equilibrato dall’incredibile sforzo tecnico che il copione prevede anche sul piano della realizzazione spaziale, laddove si prefigge di raccontare sopra un piccolo palcoscenico il Teatro in sé, i suoi meccanismi e le sue trappole, dentro a una Wunderkammer spiazzante e in continua metamorfosi.

 

I.G.: Artaud scrive in Per farla finita col giudizio di Dio «Tutto questo perché l’uomo | un bel giorno | ha fissato | l’idea del mondo. | Due strade gli si offrivano: | quella dell’infinito fuori, | quella dell’infimo dentro. | E ha scelto l’infimo dentro». Quello di Tabori è un testo politico (nel senso migliore ed etimologico) in linea con la violenza artaudiana lontana dal manierismo degli “idoli di abbruttimento che servono al gergo di propaganda”?

Luca Micheletti - Marcella Romei

Luca Micheletti: Infinito ed infimo… Un accostamento disturbante che Tabori traduce in questi due estremi: Bach e il nazismo. Le Variazioni di Bach divengono il simbolo di un patrimonio identitario europeo condiviso, ad esempio, da ebrei e nazisti: una musica sublime e inarrivabile osservata come centro armonico della cultura europea che però è stata anche snaturata e manipolata dai boia nazisti, che avevano eletto Bach al rango di ambiguo mito germanico e che lo suonavano (e lo facevano suonare ai prigionieri) nei lager. L’orrore della Shoah – e il teatro di Tabori è sempre un teatro della Shoah – è narrato senza retorica e con una violenza sbigottita e disturbante, tanto più perché a bassa temperatura, trattata con l’arma del sarcasmo contro l’orrore. Infinito ed infimo sono evidentemente qualità compresenti nell’animo umano. Bisogna trovare fra esse un virtuoso equilibrio perché sortisca la civiltà. Questo è un testo politico poiché solleva degli interrogativi legati al passato e al futuro della convivenza umana, e quindi dell’umanità tutta. È un testo che non teme d’essere “scorretto” né le armi del paradosso, del grottesco e della ripugnanza per mettere gli uomini di fronte a quel che sono stati, che sono e a quel che vogliono essere per il futuro.

 

I.G.: Questo testo è permeato dalla volontà programmatica di seguire la nozione beckettiana di fallimento. È sempre più difficile nel nostro tempo, trovare qualcuno che accetti di fallire, perché fondamentalmente si va perdendo il senso della ricerca. Ma in teatro come nella vita, è fallita la ricerca o ci si smarrisce nel cercare un sublime fallimento?

Luca Micheletti: Bisogna intendersi sull’uso della parola “fallimento”. Quello che in teatro fallisce – e non può che fallire – è probabilmente il reperimento di una via d’uscita. Come le Variazioni Goldberg di Bach sono una composizione ad anello che conclude con la ripresa dell’aria esposta all’inizio, chiudendo un cerchio ideale, così l’opera teatrale riparte sempre da capo, sera dopo sera, in un eterno ritorno disturbante e conturbante. Qui, la Creazione del mondo e il suo evolversi sono paragonati a un tentativo di ricercare un ordine impossibile, destinato in continuazione a ripiombare nel caos, nel disordine assoluto, nel fallimento. È a questo moto perpetuo tra caos e ordine che è chiamato a dar voce l’adagio di Beckett, legge suprema di ogni accadimento scenico: “Fallire ancora, fallire sempre, fallire meglio”. Del resto, il dialettico rapporto tra ordine e caos è anche sostanziale per quel che riguarda la legge della performance: sia che essa si voglia esprimere da un punto di vista storico-drammaturgico (“la commedia è il caos che trova l’ordine, la tragedia è l’ordine che diviene caos”), sia che si voglia mettere in relazione altresì canonica con l’oscillazione dell’estetica occidentale tra apollineo e dionisiaco, il ritorno da capo, l’azzeramento, la presa di coscienza che tutto è circolo e che, perché esista sviluppo, deve esistere disgregazione, sono concetti cardine di ogni teoria dell’arte, e dell’arte scenica in particolare.È chiaro che l’ideale di ogni creazione dovrebbe essere il fare di essa un’occasione di oblio di sé. Il dare vita ad un’opera e poi abbandonarsi in essa, risolversi e forse scomparirvi dentro, nel suo nuovo ordine che rende caos l’ordine precedente e fa dinamica la natura delle cose. Eppure, è raro che a questo conduca la ricerca, poiché la ricerca non è creazione ex nihilo, ma, per sua natura, approfondimento e scavo di ciò che esiste, magari sepolto. Essa, in teatro e in generale, dovrebbe guardarsi non come una linea, un vettore teso verso qualcosa da raggiungere in lontananza; la ricerca è piuttosto, a mio avviso, l’assecondamento di un moto circolare intorno ad un oggetto magnetico (la performance?), le cui forze centrifuga e centripeta, nel tempo, allargano e restringono il perimetro orbitale e consentono, questo sì, fecondi deragliamenti. L’errore è volere che la ricerca interrompa il movimento e non vi si assimili mai: ma si contravverrebbe al senso stesso della ricerca se, una volta reperito qualcosa di quel che cercava, non lo facesse rientrare nel bagaglio acquisito, nell’abbecedario del “classico”. A patto di sfuggire dal manierismo sterile e di assecondare sempre nuovi deragliamenti, nuovi moti, nuove spirali.

 

I.G.: Come dicevi, lo spettacolo è una coproduzione tra il Teatro Franco Parenti e la Compagnia teatrale I Guitti, di cui sei regista stabile. Il nucleo fondatore della attuale Compagnia è la famiglia d’arte Micheletti-Zampieri che nasce attorno al 1888. Come nacque e perché, quale fu l’origine di questa famiglia d’arte?

Luca Micheletti: Si trattò all’inizio di teatranti girovaghi, nomadi per vocazione e per necessità, che hanno rappresentato dal secondo Ottocento fino agli anni cinquanta del Novecento un trait d’union fortissimo tra la scena primaria ed ufficiale e le classi popolari della profonda provincia italiana. Non soltanto i Micheletti-Zampieri, naturalmente, ma tante altre famiglie d’arte (ovvero “in arte”) hanno abitato per decenni le città e i paesi italiani con i loro padiglioni mobili (i “carri di Tespi” – espressione di cui il fascismo si appropriò solo in seguito): di fatto, dei teatri in legno che la compagnia stessa portava con sé e installava per quaranta giorni o più sulla pubblica piazza. Lì, con un grande repertorio a cui attingere (oltre sessanta titoli canonici, più le centinaia di farse) si dava spettacolo ogni sera, e ogni sera uno nuovo. Era il vero teatro di repertorio “all’antica italiana”, dove il suggeritore contava quanto il primo attore e della regia non esisteva ancora neppure il nome. La mitologia e la pratica del circo – assai più raccontate e romanzate – non sono distanti da quelle del teatro ambulante che ha dato i natali ai miei trisavoli: al posto di leoni e contorsionisti, gli spettacoli constavano di vere e proprie “acrobazie” (metaforiche) su Shakespeare, Dumas, Hugo… Spesso con mezzi sproporzionatamente inadeguati all’alto ufficio d’una messinscena classica, queste troupes itineranti (gruppi formati per lo più da tre o quattro nuclei familiari riuniti in “fraternal compagnia”) s’ingegnavano a ricostruire con mezzi di fortuna le più grandi opere della drammaturgia universale (affiancate da titoloni più o meno improbabili dal gusto nazional-popolare: da La sepolta viva alla Passione di Cristo). L’avventura teatrale dei miei antenati comincia così, col teatro più povero del mondo, ma mai dilettantistico o amatoriale: ultimo erede della commedia dell’arte, questo teatro si fregiava d’essere ed era professionistico per forza. Cioè, in sostanza, ci si doveva mangiare: era l’unica fonte di sussistenza per gruppi numerosi di artisti della scena, che condividevano miseria e nobiltà del mestiere. E inoltre, si passava di padre in figlio, era un’arte di bottega che prevedeva ardue iniziazioni e pratiche d’allenamento durissime. Ci sono passato anch’io, pur vivendo il contesto in termini chiaramente più edulcorati per ragioni anagrafiche.

 

I.G.: Quale fu il rapporto che la Compagnia istituì con la Storia: la Grande Guerra, il Fascismo e il secondo dopo guerra?

Luca Micheletti

Luca Micheletti: Una Compagnia vera e propria non esisteva. O meglio, esisteva di stagione in stagione: il capocomico riuniva una troupe che durava fino all’anno successivo, quando si scioglieva e si ricostituiva per la stagione seguente. Il rapporto con la grande storia è perciò legato alle vicende personali dei singoli e, più degli avvenimenti e delle esperienze private (comuni a tanti) negli anni difficili dei conflitti mondiali e del Ventennio, parlano le date, restituendo una genealogia e cronologia di una stirpe in teatro da centocinquant’anni. Iniziò Giuseppe Zampieri (1868): era figlio del custode di un teatro e fuggì con una Compagnia di giro di stanza a Rovigo. Si sposò e generò mia nonna Lina (siamo nel 1917); poi, in seconde nozze, altri tre figli, tutti in arte. Lina sposò l’attore Pietro Micheletti, mio nonno, che le diede quattro figli, fra cui mio padre Adolfo (1942). Pietro morì nel 1964 e la sua attività era ormai quasi ferma da un decennio. Con lui ebbe termine l’avventura nomade. Lina proseguì il mestiere di attrice col nuovo compagno di vita e di scena, Goffredo Papa, e si riunì a mio padre che nel 1975 aveva fondato una nuova compagnia insieme a mia madre Nadia Buizza (anche lei attrice), ovviamente priva di teatro mobile, ma che ribadiva in termini di sangue – e nel nome – i legami con l’avventura del teatro dei padiglioni. Negli anni, vi hanno recitato ancora tutti i fratelli Zampieri, Luciano, mio zio, e i miei fratelli Marco e Stefano, oltre a me naturalmente.

 

I.G.: Nel 1975 Adolfo Micheletti e Nadia Buizza hanno rifondato la Compagnia teatrale “I Guitti”. La direzione nuova si connota subito nella ricerca e nello studio dei classici che vengono riproposti con una cura filologica e al tempo stesso con uno stile molto peculiare. Quale è stato il primo spettacolo della Compagnia rifondata?

Luca Micheletti: Quelli che noi oggi chiamiamo “guitti”, con un po’ di nostalgia e anche un paradossale orgoglio, “guitti” non ci si sarebbero mai chiamati. È risaputo che “guitto” sa di offesa per un attore: lo si apostrofa così quando se ne vuol rilevare la sciatteria interpretativa, la propensione per la “carrettella” (la tirata strappa-applauso), il compiacimento gigione, il dubbio gusto e il birignao ancien régime. Ma i “guitti” a cui pensavano i miei genitori e a cui penso io non hanno a che fare col mattatore di tradizione. Essere “i” guitti non è essere “guitti”, bensì ribadire l’attaccamento ad un legame originario e profondissimo, con un teatro che è un bisogno esistenziale, identitario, cui ci destina persino la consanguineità; ma è anche la ricerca di un teatro d’alto artigianato, che – come e diversamente da un tempo – fa dei classici un terreno di condivisione con un pubblico folto e stratificato, piegandoli però non al suo gusto disordinato e volubile, bensì ad un discorso sul contemporaneo e le prospettive di un’arte viva. Nel 1975 si ripartì con un ironico Canto del cigno di Cechov, riflessione, anche quella metateatrale, sul finire di un mondo e di un modo di pensare l’attore. Anche I Guitti sono cambiati, negli anni: oggi costituiscono un prezioso laboratorio di idee, aperto a nuovi progetti, alla nuova drammaturgia, ad affiancare e sostenere con esperienza gruppi più giovani così come a collaborare con uno dei più importanti teatri italiani come il Franco Parenti che ci ha voluto come Compagnia residente per il 2016 e dove è nato Le variazioni Goldberg.

 

I.G.: Osservando il tuo percorso, la nascita tua e del tuo mestiere, si pensa a Francesco Andreini quando ne “Le bravure del Capitano Spavento” scrive «Quand’io nacqui in quel gran Theatro del Mondo, nacqui diversamente dal nascere delle altre creature, e perciò nota: quando gli altri fanciulli nascono, nascono ignudi e piangenti, e io quando nacqui, nacqui vestito di piastra, e maglia, ruggendo come febricitante Leone, e fischiando, come arrabbiato Serpente». In qualche modo sei portatore, come il Leone o il Serpente, di questa febbre dionisiaca che è il teatro. Quale responsabilità avvertite e avverti nell’avere l’impegno di conservare e preservare una tradizione teatrale così importante nell’ambito italiano ed europeo?

Luca Micheletti: La responsabilità dovrebbe essere la stessa per ogni teatrante, al di là del suo percorso e della sua eredità. Novarina ha detto che si finisce a teatro perché c’è qualcosa che non si è potuto sopportare. Chi fa teatro ha il dovere di non sopportare, di rompere, di stravolgere, di incendiare, “ruggire e fischiare” per dirla con Andreini, senza accontentarsi di astute franchigie, sviluppando quella sensibilità di cui parla Bataille a proposito dell’eros, altrettanto grande per l’angoscia che fonda il divieto quanto per il desiderio che induce a infrangerlo. E non a caso, il filosofo l’ha chiamata sensibilità “religiosa”: Le variazioni Goldberg parla proprio di questo, tra fede, teatro e responsabilità.

 

I.G.: Il tuo, il vostro, è un teatro pluridimensionale. In questo periodo in Italia, pare si stia tornando al problema della quarta parete e spesso a teatro ci sono spettacoli che su questa parete rimbalzano e si chiudono inesorabilmente sulla propria non-dimensionalità. Alla luce di questa storica presenza e tradizione attoriale, cosa sta accadendo al Teatro italiano e alla sua dimensione?

Luca Micheletti - Umberto Orsini

Luca Micheletti: Credo siano due le questioni che gravano sulla scena italiana. La prima: l’estetica ha come tirannico condizionamento la congiuntura economicamente disagevole che il nostro teatro – e non solo questo – sta vivendo. Il monologo (o comunque le troupes scarsamente numerose) non sono una scelta, ma spesso un obbligo motivato dall’assenza di fondi. Gli attori non sono tutelati e i registi devono troppo frequentemente improvvisarsi leader di imprese indipendenti, utopistiche e spesso insostenibili e prive di destinazione,nonostante il valore molte volte comprovato. È naturale che il protrarsi di questa situazione sia snervante e compromissorio, in più occasioni, della riuscita quando non della stessa fondatezza di un progetto. La recente riforma non è l’unica responsabile del disastro e, anzi, benché ci siano davvero molti punti da rivedere (non ultimo quello della centralità degli attori, la componente più essenziale e maltrattata del teatro oggi) ha in parte contribuito a muovere le acque: ogni volta che succede, esse si intorbidano, e sembra di non vedere più niente. La sabbia si depositerà e si cercherà di far luce sull’orizzonte, siamo positivi. Ma deve avvenire presto; e resta il fatto che anche se il teatro è abituato da secoli a costruire meraviglie nella miseria, fuori da ogni romanticismo, è evidente e apprezzabile che sotto gli occhi di tutti, al di fuori dei nostri confini nazionali, perdurino in Europa modelli virtuosi, che danno dignità a chi opera nello spettacolo e a chi ne fruisce come una delle più importanti forme d’arte. Perché non conformarsi di più e meglio a questi esempi? Forse è ora di finirla di dire che l’Italia è un Paese diverso e che non sosterrebbe il modello. Di fatto, non sostiene neanche quello presente. Direi che, pur facendo salve le peculiarità della nostra tradizione teatrale (e imparando semmai a meglio tutelarle rispetto a come avviene ora, in maniera superficiale e spesso cialtronesca) vale la pena di tentare. La seconda questione. Si assiste troppo spesso a declinazioni diverse di questi due estremi nei confronti dello spettatore: da un lato, un atteggiamento pavido da parte di chi il teatro lo fa e lo produce, un “giocare al ribasso” che dà la colpa al pubblico e alla sua eterogeneità e volubilità. Dall’altro, un fanatismo circoscritto a gruppi limitati di spettatori più o meno professionisti intorno ad alcuni fenomeni della scena che vengono per contro del tutto ignorati o rifiutati dallo spettatore comune. Non è un discorso ingenuo: so bene che il pubblico del teatro non è mai stato il “grande pubblico”, non sto pensando alle “masse”, ma a quel numero congruo di spettatori che il teatro già lo frequenta e che magari fa pure l’abbonamento. Io credo che la colpa non sia del pubblico, che a teatro non manca, e non abbisogna affatto di “eventi” pseudo-formativi tenuti da incompetenti che lo allettano con la caramella avvelenata dell’intrattenimento, magari addirittura assecondando vogliuzze autoesibitive di dilettanti allo sbaraglio; e che poi, al momento di offrire del teatro d’arte (ciò che davvero formerebbe lo spettatore) precipitano sotto il peso dell’insipienza e del “televisivo” più deteriore, travestendolo magari da “teatro didattico” o “d’impegno sociale” purchessia. Allo stesso tempo, richiudersi su un teatro che parla solo ai teatranti è sterile e, per giunta, altrettanto pavido. Il discorso è ancora lo stesso che Goethe faceva nel “Prologo sulle scene” del Faust: le ragioni del “botteghino” e quelle dell’“arte per l’arte” c’è una sola creatura che può farle quadrare: l’attore. Si torni a dargli la centralità e la dignità che merita come testimone di civiltà; e, per contro, gli attori stessi si assumano la responsabilità di formarsi prima di formare, come artisti, intellettuali e cittadini.

 

Written by Irene Gianeselli

 

Info

Sito I Guitti

Sito Teatro Franco Parenti

 

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