“Mia madre”, il nuovo film di Nanni Moretti: la fatica di esserci

«She was just sleeping somewhere / Now she’s come back to hold my hand / And we go walking / And the years have all melted away / Yeah, I remember you like yesterday / And the summer’s here, so say goodbye to rain/ […] I feel like I am surely dreaming/ How can things, oh, so quickly change?/ Well, it’s strange but true I’m telling you truthfully see» Jarvis Cocker, “Baby’s coming back to me”

Mia madre

Il ritmo della canzone (“Baby’s coming back to me” di Jarvis Cocker) che Nanni Moretti ha scelto come colonna sonora della sua ultima fatica “Mia madre” si adatta con semplicità allo stato d’animo – in realtà complicatissimo da accettare e rielaborare – che placa e inibisce i personaggi.

E si tratta di quella stessa semplicità che Moretti rincorre per dare libero sfogo alla sua urgenza di raccontarsi attraverso un flusso di coscienza per immagini, coinvolgente ed esaustivo, capace al tempo stesso di evocare continuamente ed inevitabilmente nebulose figure – feroci o dolcissime che siano – che ci appartengono nel profondo. Voler ad ogni costo prendersi il merito di mettere ordine tra i piani che si intersecano simultaneamente sarebbe ingiusto, tuttavia si può osservarli e riconoscere i contorni, le sagome degli incastri.

“Fatica” è la parola che connota il film sin dalle prime scene: Margherita è una regista nervosa e insicura, a cui la Buy ha saputo dare con ironia e piglio alcuni atteggiamenti tipici di Moretti svelando così, sin dall’esordio, il gioco metacinematografico.

Ma Margherita potrebbe essere una delle tante registe insoddisfatte di sé che affollano il mondo se Moretti non avesse invece un’idea ben precisa: Margherita è Nanni Moretti, è il Nanni Moretti sofferente che proietta se stesso continuamente in ogni personaggio, ma che profondamente teme se stesso.

Fatica. Tanta fatica, ma non si tratta assolutamente di una fatica tediosa perché Nanni Moretti non cede – da regista, quindi stando accanto alla storia che racconta – ad uno sviluppo esasperatamente intimistico, anzi: Margherita non è mai sola, nemmeno quando si ostina a cercare di separare se stessa dagli altri.

Mia madre

Non è sola perché accanto a lei c’è il Nanni Moretti che critica se stesso cercando positivamente di invitarla/invitarsi a “spezzare gli schemi” e si tratta del Nanni Moretti interprete che ritaglia per sé il ruolo di fratello disilluso che non rinuncia mai alla tenerezza: Giovanni preferisce cercare il contatto con la sorella direttamente, piuttosto che accontentarsi di ciò che lei offre dando in pasto ad un pubblico esigente, ma profondamente disattento, una versione edulcorata di sé.

Non è sola Margherita perché accanto a lei c’è Vittorio di cui rifiuta l’amore e che, però, ferisce il suo orgoglio; Enrico Ianniello con la sua interpretazione pulita rende il suo personaggio un uomo sicuro di sé, spiazzante nella sua normalità che per questo si impone senza compromessi.

Non è sola Margherita perché tutti i membri della troupe non fanno che seguirla silenziosamente, cercando di assecondarla e forse, proprio per questo, tradendola.

E la madre? La madre è la figura di riferimento che si sta spegnendo. Margherita sa, dopo il coraggioso atto di accusa di Vittorio, di non essere un punto di riferimento per alcuno e questo significa potere sempre aspettare che qualcuno ritorni (proprio come dice la canzone di Cocker) ma non essere mai attesi.

Mia madre

Il dramma non è tanto la morte quanto la certezza che gli altri nella debolezza, nell’abbandono e nel dolore riescono sempre a comunicare, mentre Margherita vive il suo struggimento sola, senza volere cercare consolazione né negli altri né in se stessa: il Moretti regista costruisce tutto questo con inquadrature mai vuote, sempre corali e materiche. Il vero lutto da elaborare, forse, è la perdita del senso di sé tra gli altri e non tanto la morte annunciata di una madre sofferente e pure sempre dignitosa e pronta ad amare, interpretata da una straordinaria Giulia Lazzarini.

Così è la vita ad invadere il set, è il dolore ed il senso di impotenza ad attraversare i gesti, gli sguardi della protagonista a cui Margherita Buy si accosta con grande sensibilità ed equilibrio senza cedere al facile melodramma riuscendo invece a creare la tensione di chi vive nel terrore di rimanere incastrato nello schema che ha costruito per spezzare gli schemi precedenti e che, ritenendosi profondamente inadeguato al vivere con gli altri, preferisce attribuire agli altri la propria inadeguatezza.

È John Turturro ad interpretare il fool, l’istrione, l’artista vagamente decadente che cerca di continuare a comunicare se stesso nonostante debba anche cercare di nascondere la propria malattia: e Turturro sa essere disarmante nella vitale comicità, nello slancio con cui affronta il suo ruolo.

Mia madre

C’è l’illusione, c’è il dolore. Ci sono il cinema e la scuola. C’è la memoria. Ci sono il sogno, l’incubo, la realtà che si mescolano in un impasto omogeneo e compatto nel montaggio di Clelio Benevento.

E poi ci sono le ultime battute, ma quelle non si possono riassumere, perché nello sguardo atterrito di Margherita c’è il peso della responsabilità di chi resta ed ha paura. Ma non della fine, né del nuovo cominciare. Solo paura di “esserci”, di essere tra gli altri e della consapevolezza – conquistata con fatica e sofferenza – di dovere essere tra gli altri.

Così “Mia madre” di Nanni Moretti non si può davvero definire, fino in fondo, soltanto un film autobiografico: perché questo senso di smarrimento, questa insicurezza sono ormai tanto universali che se non ci fosse il cinema potrebbero davvero rischiare di non essere riconosciuti quando ci si trova ad esserne attraversati, troppo distratti come siamo a cercare di difenderci dall’amore che potremmo perdere o temiamo di non meritare.

 

Written by Irene Gianeselli

3 pensieri su ““Mia madre”, il nuovo film di Nanni Moretti: la fatica di esserci

  1. Il dire che questo è un saggio molto complesso – al che sarebbe facile la risposta col dire che la complessità è del film piuttosto – non verrebbe a coglierne la consistenza o il suo in sé. Forse si dovrebbe dire che esso saggio, più che individuare la struttura filmica oggettiva, mira a far palese il volgere emotivo – o perfino, con una terminologia un poco più aggiornata, operazionale – determinato da essa struttura nello spettatore, il che sarebbe non soltanto lo specifico di una appropriata critica d’arte spettacolare, ma anche una più o meno fedele descrizione di come e con che moti psicocinetici si determina e via via si architetta la costruzione filmica del regista.
    Questa valutazione, pur così decisamente elogiativa, dell’intervento critico in oggetto, è tuttavia insidiata sotto sotto dal sospetto che l’approvazione critica del film Mia madre sia anch’essa originata dalla temperie applausiva che si scatena inarrestabile ai piedi e all’intorno di certi personaggi e loro opere solo in quanto un guru o padrino o mammasantissima della cultura ne determina la santificazione. E allora unicamente per rispetto o abbandonata sommissione al mammasantissima o padrino o guru posto a sua volta, chi sa perché e come, sugli altari d’una indiscutibile superiorità anche di tipo non necessariamente specifico o culturale, ecco che al fortunato erigendo si costruiscono templi e altari e si dedicano incensi e prosternazioni anche molto esibite senza nessun riguardo al loro oggettivo valore. Nanni Moretti è indubbiamente un fruitore di simili temperie. Resta da vedere quanto egli ciò meriti e quanto gli sia profuso indebitamente, e ciò si può fare solo tornando a vedere i suoi film liberi da simili soggezioni e fissando lo sguardo unicamente sulle opere, valutandole per quel che sono in sé e per sé, attenti a non lasciarsi condizionare da timori reverenziali o paura d’essere esclusi da greggi e mandrie prevalenti.
    Domenico Alvino

  2. Ritengo necessario specificare che in nessuna parte del mio articolo – che forse Lei esagera nel definire un saggio perché sia strutturalmente che contenutisticamente non può appartenere al genere – è presente un elogio smoderato ed ingiustificato del regista e questo per due motivi: in primis perché se proprio avessi voluto elogiare smoderatamente qualcuno avrei dovuto elogiare tutti i componenti della troupe, perché i prodotti cinematografici sono effettivamente merito di tutte le maestranze e i professionisti che vi lavorano – e questo dovrei farlo, al di là del risultato, ogni volta che scelgo di parlare di un film o di uno spettacolo teatrale o di qualsiasi altra opera d’arte – .
    In secundis perché non è questo il mio obiettivo quando condivido con gli altri le mie impressioni. L’obiettivo è raccontare ciò che ho visto, da spettatrice in mezzo agli spettatori. Io credo solo a ciò che vedo e perciò trovo alquanto superficiale (nel senso etimologico del termine) l’allusione con cui ha chiosato il suo pensiero. Credo sia alquanto pretestuoso ed immotivato attribuirmi un atteggiamento di “abbandonata sottomissione” o, peggio, attribuirmi la paura di “essere esclusa da greggi e mandrie prevalenti” per il semplice fatto che, per quanto io sia attenta ad ascoltare tutte le voci di questo mondo nei limiti delle mie capacità e possibilità, non sono affatto interessata a compiacere alcuno, dato che non c’è vantaggio nel condividere con gli altri quello che gli altri già pensano e argomentano. Ciò sarebbe rinunciare alla democrazia del pensiero e all’onestà intellettuale, due aspetti irrinunciabili del mio essere donna che vive nel mondo e che non intendo eclissare. Guardo i film di Moretti con la stessa disposizione d’animo con cui guardo qualsiasi altro autore e, mi spiace deluderla, non ho facoltà di santificare nessuno non essendo salita in cattedra a pontificare: questa facoltà spetta agli uomini che credono di poter tenere “ai propri piedi o all’intorno” gli altri e questa, mi creda, è una presa di posizione nei confronti della vita del tipico “maschio” che intende i suoi interlocutori creature in tutto e per tutto sua geminazione: non per niente la sua allusione vorrebbe sottolineare quanto, da donna, abbia cercato di rendere grazia ad un “padrino” alias un “protettore”. La pregherei di prestare attenzione alle parole che usa, specialmente quando si rivolge ad una donna: non tutte le donne amano essere giudicate con il maschile pensiero “oggettivo” che tutto troppo volgarizza e tende a ridurre qualsiasi soggetto o oggetto – in questo caso il pensiero – ad un servo su cui spadroneggiare.

    In tal senso credo davvero appropriato questo passo tratto da “Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit” di Walter Benjamin:

    « Qual è il rapporto tra l’operatore e il pittore? Per rispondere a questa domanda ci sia consentito ricorrere a una costruzione ausiliaria fondata su un concetto di operatore derivante dalla chirurgia. Il chirurgo incarna il polo di un ordinamento, al polo opposto del quale c’è il mago. L’atteggiamento del mago, che guarisce un ammalato mediante imposizione delle mani, è diverso da quello del chirurgo, il quale intraprende un intervento sull’ammalato. Il mago conserva la distanza fra sé e il paziente (…) il chirurgo procede alla rovescia (…). In una parola: a differenza del mago (che ancora si nasconde nel medico comune), nel momento decisivo il chirurgo rinuncia a porsi di fronte all’ammalato da uomo a uomo; piuttosto, penetra al suo interno operativamente. Il mago e il chirurgo si comportano rispettivamente come il pittore e l’operatore. Nel suo lavoro, il pittore osserva una distanza naturale da ciò che gli è dato, l’operatore invece penetra profondamente nel tessuto dei dati. Le immagini che entrambi ottengono sono enormemente diverse. Quella del pittore è totale, quella dell’operatore è multiformemente frammentata, e le sue parti si compongono secondo una legge nuova.»

    Forse dovremmo solo scegliere quando e come e chi essere. Chirurghi o maghi? I risultati sono differenti e andrebbero valutati entrambi.
    Possiamo essere anche detrattori di tutto e di tutti, oggettivatori del soggettivo (come soggettivo di fatto è il commento ad una qualunque opera) oppure pensatori autonomi di diritto, autonomi anche da noi stessi.

    Irene Gianeselli

  3. Dovevo immaginare che lei avrebbe posto il problema nei termini della contrapposizione uomo-donna? No. Non l’ho immaginato, intanto perché io sono uno che adora la donna, come dimostra il mio ultimo libro (Domenico Alvino, Thauma Donna Domina Domus Prima, Loffredo Editore, Napoli 2014: lo cerchi su internet, così potrà leggere in quarta di copertina quel che contiene), che è un libro mosso, come si vede dal titolo, dallo splendore (gr. thauma) che io vedo emanare dalla figura della donna, nostra signora e padrona e nostra prima casa, nostra cioè di noi che facciamo universo, origine e promotrice splendida, dunque, dell’intero universo; e poi non l’ho immaginato perché dalla lettura del suo saggio (insisto a dire che per me è un saggio, per le ragioni di già indicate) non emerge nessun segno di quella che per gli imbecilli è l’idea fissa dell’inferiorità della donna rispetto all’uomo, ma vi sono anzi chiari segni d’una altezza d’ingegno che si dà a volte nell’individuo umano, uomo o donna che sia.
    Quanto ai padrini della critica, questa figura non la individuavo certo in lei, era, il mio, un discorso in generale riguardante il pericolo che tutti corrono, il sottoscritto compreso, di esserne influenzati. E aggiungevo che Nanni Moretti era uno appunto per il quale s’erano eretti templi e altari intoccabili, e un segno potrebbe essere (“potrebbe”!) proprio l’impossibilità di trovare, in seno alla critica cinematografica, una disapprovazione a suo carico o riguardante una sua opera. Di qui il sospetto (il “sospetto”! ) che anche il suo splendido giudizio ne fosse sotto sotto (“ma proprio sotto sotto”, mi era venuto di scrivere e non l’ho scritto non ricordo perché) influenzato. Siamo tutti impastati di fango e di sostanza angelica, e perciò in noi può abitare il santo e il demone, il ladro e il donatore di sé al prossimo, l’assassino e il martire, così, di sorpresa, magari proprio dopo che abbiam detto quella frase stupida che dicono certi stupidi, “Lei non sa chi sono io!”, senza escludere che ci capiti il caso inverso. Sicché io da un bel po’ , quando capita, mi concentro a dire che sono soltanto uno che si sforza d’essere onesto, senza potere assicurare che ci riesca sempre. Il simile credo che ognuno di noi debba dire nelle congiunture qui in oggetto.
    Ciò precisato, io le rinnovo i miei omaggi e il mio apprezzamento per il “saggio” in parola.
    Domenico Alvino

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