“Ho ucciso Napoleone”, di Giorgia Farina: la parodia di una donna in carriera perennemente imbronciata

«Ho ucciso Napoleone!»

 

Ho ucciso Napoleone

Se foste voi a pronunciare una frase come questa nel bel mezzo della strada affollata di signore in sovrappeso con le sporte piene, uomini d’affari tutti a modino che macinano i marciapiedi con passo affrettato – la metro, accidenti, la metro già parte e loro se la perderanno perché sono stati distratti da un egregio fondoschiena – potreste provocare in chi vi sta attorno almeno tre diversi tipi di reazione: indifferenza, riso o rammarico.

Negli ultimi due casi preparatevi a ricevere, chiunque voi siate, una solidale pacca sulla spalla: sarete compatiti per la vostra megalomania e probabilmente invitati a frequentare uno studio psichiatrico (massima discrezione).

Anita, invece, Napoleone lo uccide per davvero. Ma chi è Napoleone?

Anita, la cinica Anita che ha l’erotismo e l’espressività di un sofficino e l’umanità di una sbarra di ferro laccata dovrà affrontare tutto un grottesco meccanismo di cui è vittima, suo malgrado complice ed anche autrice: Giorgia Farina torna a parlare di donne con lo slancio narrativo del thriller e con i toni della parodia costruendo un’eroina che si muove scattando e sgranando gli occhi quando entra prepotentemente in scena.

Si potrebbe dire che la regista non abbia fatto un gran favore alle donne: Michaela Ramazzotti è una parodia di donna in carriera perennemente imbronciata il cui senso materno è solo convinzione di dolore (l’epidurale andrebbe fatta da quando si rimane incinta, asserisce convinta) e l’associazione che mette in piedi nel parco sotto la sede dell’industria farmaceutica per cui lavora è un surrogato di nevrotiche, paranoiche ed esasperate donne insoddisfatte di sé, dell’amore e del sesso o semplicemente fallite – ottime le interpretazioni delle “socie” Elena Sofia Ricci, Thony e Iaia Forte -. Ma proprio queste donne all’apparenza così stereotipate destruttureranno lo stereotipo.

Ho ucciso Napoleone

Anita in questo tentativo rocambolesco di riprendersi il maltolto – in primis il ruolo di potere nell’azienda, in secundis, se possibile, anche Paride (Adriano Giannini) che oltre ad essere il suo capo è anche il suo amante – si ammorbidisce avviandosi verso una sostanziale indipendenza anche dal ruolo che si era imposta: Giorgia Farina guida lo spettatore limitandosi a seguire la crescita dei personaggi che, sebbene siano condizionati da una forte instabilità psichica, creano una rete di rapporti sinceri.

Persino la maternità che Anita mai avrebbe voluto finisce per trasformarsi in una occasione per essere donna e non angelo del focolare, donna responsabile della propria vita e di quella del suo bambino. E la trasformazione è continua forse grazie anche al goffo e profondamente viscido Biagio (Libero De Rienzo) che, invece, non riesce a trasformarsi: come condannato, non farà che ripetere le sue mosse come un personaggio nietzschiano, ormai assorbito dal vortice di negatività che lui stesso ha provocato.

Così lo sguardo algido di Micaela Ramazzotti coronato da una colata di vernice sanguinolenta racconta di una donna che, a dispetto degli uomini perennemente alla ricerca di una preda da dominare più che di una compagna, sceglie di riprendere oltre che coscienza di sé, coscienza di quell’affettività che le è stata negata. Ancora una volta, le responsabilità sembrano essere dei genitori – e non solo nel caso specifico di Anita, dal momento che anche Biagio soffre di un leggero bipolarismo -.

Il film apre uno squarcio sulla difficoltà di entrare nelle nuove dinamiche familiari e lo fa con leggerezza ed ironia. Le famiglie non si possono costruire con il rigore di una montatura di occhiali o con la geometria di una acconciatura da fumetto futuristico. Anita dovrà fare i conti con nuovi modelli sociali, culturali e familiari: suo padre – interpretato da un ottimo Tommaso Ragno – intellettuale affascinante e allo stesso tempo spigliato, deliziosamente ironico, artista super partes lucidamente consapevole delle dinamiche in cui è calato e sua madre – una briosa Pamela Villoresi – donna eccentrica, forse solo bisognosa, esattamente come la figlia, di affetto e libertà di espressione.

Ho ucciso Napoleone

Tutto è un vorticare di colori pop, la scenografia di Tonino Zera costruisce atmosfere gelide, lucide e geometriche – decisamente ospedaliere -: vetrate ed infissi metallici, pavimenti martellati da tacchi vertiginosi, smalti perfettamente stesi su unghie che sono uncini. La fotografia di Maurizio Calvesi è satura a sottolineare l’emotività di un personaggio, dai netti contrasti di colori a dare spessore ai gesti che compie.

Tutto è uno scatto rapido di inquadrature dall’alto, supine e sghembe, sequenze dal ritmo serrato reso ora più incalzante ora più frizzante dalle musiche di Andrea Farri.

Il film rappresenta un universo umano composito e variegato: uomini fragili e donne insicure. Uomini che non sanno amare, donne che devono imparare a farlo. Uomini e donne incastrati nello stereotipo che hanno vestito come un’armatura lucida e priva di difetti perché al sole potesse abbagliare.

Tutta la ferocia portata alle sue estreme conseguenze sulla fisicità dei personaggi, oltre che sulla loro psicologia, diventa un sorriso sereno davanti ad una grande tavola. “Chi sei tu?” è l’unica domanda cui valga la pena di rispondere prendendosi il tempo di cui si ha bisogno. Giorgia Farina distilla la brutalità dei rapporti di convenienza in ufficio e in famiglia: tutto sembra trovare un suo equilibrio, ciò che viene restituito è una sicurezza di sé in mezzo agli altri mille volte più appagante del potere fine a se stesso. E sono le donne a prendere il posto che meritano, questa volta senza dovere fingere di essere altro da ciò che sono.

Ho ucciso Napoleone” è stato presentato in anteprima internazionale al Bari International Film Festival 2015.

 

Written by Irene Gianeselli

 

 

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