“Medea”, tragedia di Euripide: la psicologia che scava dentro l’animo umano

Analizzo per prima la tragedia Medea perché  è altamente espressiva del mondo concettuale euripideo che ho già altrove introdotto, e perché è la più famosa tragedia del drammaturgo, ottimo indagatore dell’animo umano.

Per la prima volta nella storia della tragedia greca il conflitto si dibatte entro un animo solo: è lei Medea che da sola, barbara e abbandonata, si dilania negli opposti sentire, lacerata tra razionalità e passione, insicurezza e decisionismo. Mentre nelle tragedie di Sofocle Antigone trova il suo antagonista in Creonte, qui l’antagonista non c’è. Giasone è una figura sbiadita, borghese, opportunista, non un uomo degno di spessore eroico, anzi diremmo che è l’anti-eroe per eccellenza. La tragedia, benché ad essa sia legata gran parte della fama di Euripide, non vinse alle Grandi Dionisie del 431 a.C., ma si piazzò terza, dopo un’opera di Sofocle, vincitore, e di Euforione (figlio di Eschilo) secondo classificato.

Il che dimostra che i tempi ad Atene non erano maturi per accogliere e interiorizzare il messaggio innovatore di Euripide che spostava l’attenzione dal dio all’uomo, indagato con il  bisturi dell’analista. La radicale impostazione psicologica e il conflitto conseguente sono il segnale della crisi della polis, che non si ritrova più nei suoi antichi costumi e si prepara a perdere la dimensione di città-stato democratica cadendo sotto l’egida prima degli Spartani e poi dei Macedoni.

Dobbiamo immaginare una rivoluzione copernicana, in cui tutto ciò che si è acquisito in termini di grandezza eroica e di stabilità politico-sociale frana sotto l’ascia della guerra del Peloponneso, che decreta la vittoria di Sparta. Nel 431 a.C. siano dentro la guerra che coinvolse tutta la Grecia, perché tutti si schierarono con Atene o con Sparta e amaro fu il destino di chi si astenne, come ci ricorda Tucidide nelle sue Storie, riferendoci l’episodio dell’isola di Melo, che, non schieratasi, venne rasa al suolo.

La psicologia di Euripide scava dentro l’animo umano  e ne esprime tutto il disagio esistenziale, frantuma l’essere tetragono e apre faglie di debolezza e momenti di amarissima riflessione sulla condizione umana. L’essere si moltiplica nelle sue infinite sfaccettature e ha difficoltà a parlare con se stesso, figuriamoci con gli altri!

Siamo caduti nella temuta incomunicabilità tra gli umani e gli dei sono assenti; se appaiono, sono solo fantocci utili a risolvere l’intreccio, il famoso deus ex machina; ma questo non interviene nella tragedia di Medea trascinata dalla più spasmodica tensione verso un tragico finale.

Andiamo alla trama: dopo la conquista del vello d’ora nella Colchide (si vedano gli Argonauti di Apollonio Rodio), Medea e Giasone si trasferiscono a Corinto, insieme ai due figli. Va detto che Medea è un nomen omen e significa “Maga”, ha la radice del verbo medèomai,  curare con intrugli magici; è lei che fornisce a Giasone il farmaco per addormentare il drago custode del vello d’oro; quindi, è grazie a lei che l’impresa si compie.

L’ardimento e la passione della eroina sono non comuni per i Greci, infatti lei è la barbara donna che tradisce la sua gente, suo padre, e uccide il fratello Ipsirto per inseguire il suo amore. La grandezza della figura sta proprio nella potenza del mondo irrazionale che la travolge senza mediazioni, lei è puro istinto e acceso furore, lei è corpo e anima che amano fino all’autodistruzione. Dopo qualche anno però di convivenza a Corinto, Giasone si rivela in tutta la sua bassezza e meschinità, ripudiando Medea per sposare la figlia di Creonte, re di Corinto; il che gli darebbe diritto di successione al trono.

Egli è dunque l’uomo freddo e calcolatore, scialbo e opportunista che non sa cosa sia la passione e nella sua sprovvedutezza disarmante non riesce a presagire gli effetti della sua decisione nel fiero animo della barbara, che non si è mai integrata nell’ambiente che la ospita, dove si sospetta di lei in quanto straniera e dotata di una superiore sapienza ( la magia, appunto). Tutta la tragedia si svolge dentro il suo animo ed è straordinario come in questa rivoluzione euripidea lei, barbara, risulti l’eroina, mentre il greco Giasone è l’ombra di se stesso: figura assolutamente secondaria.

Lui sa opporre solo convenienti ragionamenti, mentre Medea con ardore e passione incontrollate si lamenta col coro delle donne corinzie. Creonte, che sospetta una vendetta, le ordina la lasciare la città. Ella finge di scendere a miti consigli e ottiene di rimanere un giorno, che le servirà per realizzare il piano. In un colloquio drammatico con Giasone, parodia dell’eroe mitico, si scava un abisso incommensurabile tra le due figure; sicché Medea decide di infliggere al traditore una terribile vendetta.

A ciò la induce un viluppo di sentimenti, che ella è in grado di esaminare razionalmente ma di non superare col cuore; sicché in lei dibattono diverse anime, come dicevo sopra, ma soprattutto razionalità e passione; questo configgere ne fa un personaggio straordinario. Si sente frustrata nella sua sessualità, ordisce la vendetta, ha orrore dell’isolamento, smania di affermare la propria personalità superiore, consapevolezza della sua forza intellettuale, interpreta profondamente il senso della giustizia violata. Il tutto genera un’ansia disperata che la induce al progetto fatale: per vendicarsi dell’uomo annienterà ciò che ha di più bello: i suoi figli, ferendo a morte la sua maternità. Masochismo femminile? Freud direbbe di sì, si tratta di un autentico progetto di autodistruzione. Manda quindi i figli dalla novella sposa con in dono una ghirlanda e una veste avvelenate. La fanciulla, indossatele, muore in fiamme insieme al padre che tenta di salvarla. I poveri bimbi, che non parlano mai, vittime sacrificali, ora non hanno più scampo: Medea li uccide con le proprie mani, poi si leva con i loro corpi sul carro del Sole suo progenitore, irridendo crudelmente allo strazio di Giasone.

Vendetta, atroce vendetta che è affermazione della dignità della donna, conculcata in Atene, polemica contro le argomentazioni di una falsa giustizia, interpretata da Giasone, accusa contro l’isolamento dell’intellettuale, ma in primis rivendicazione del libero arbitrio nel bene e nel male. L’uomo, rimasto senza dei, è faber fortunae suae, anche se il pessimismo euripideo identifica tale destino con un processo di autodistruzione.

 

Written by Giovanna Albi

 

8 pensieri su ““Medea”, tragedia di Euripide: la psicologia che scava dentro l’animo umano

  1. Io non apprezzo molto la Medea di Euripide… è troppo “molle”, vittima degli eventi, donna distrutta dalle circostanze come troppe ce n’è in giro. La versione di Seneca di Medea, invece… quella fa paura. Impressionante. Feroce. Devastante. Una furia cieca e senza rimorso che, nella sua sete di vendetta, è persino appoggiata dall’Olimpo. Decisamente molto meglio.

  2. Non approvo il tuo punto di vista, notoriamente il teatro di Seneca è plateale e serve a suscitare meraviglia e terrore, più esercitazione letteraria che non opera sentita e con degno approfondimento psicologico. Definire “molle” una eroina tragica che vive intensamente tutto la vasta gamma di passioni che l’attraversano fino al gesto estremo dell’omicidio della rivale in amore e addirittura dei propri figli per vendicare l’onore ferito mi sembra davvero fuori luogo.Ti ricordo che i monologhi di Medea con tutto il loro spessore psicologico sono diventati un modello insuperabile di riferimento per la letteratura successiva. Imitati da Apollonio Rodio nelle Argonautiche anche se in altro contesto, sono passati alla letteratura europea.Direi che una rilettura di Medea attraverso i testi di Albin Lesky, Del Corno, De Benedetti, e quant’altri insieme a quella del testo greco può cambiare il punto di vista. Certo dal teatro greco vengono bandite scene di sangue che non possono essere rappresentate sulla scena, Seneca indulge sul feroce, il sanguinario, il truculento, seguendo la moda del tempo e i gusti dei Romani che amano vedere scorrere il sangue, Euripide, a costo di non piacere, infatti arrivò terzo nell’agòne tragico, rivoluziona il teatro, creando eroine femminili al cospetto delle quali i maschi,come Giasone, risultati “molli”, opportunisti. Il mondo greco freddo e calcolatore perde di fronte alla forza prorompente della barbara Medea, maga passionale e determinata. Forse stiamo parlando di due Medee di Euripide diverse, perché quella che ho presentato io non è una mia invenzione, ma il risultato di una lettura del testo greco insieme alle interpretazioni dei più grandi luminari del campo.
    Quindi, in sintesi, puoi preferire il teatro senecano, nessuno lo impedisce, ma certo definire “molle”e travolta dagli eventi la Medea euripidea va contro la natura del personaggio , contro il mondo concettuale di Euripide, contro tutte le interpretazioni della eroina. Poi, scripta manent, la Medea è a disposizioni di tutti, a testimoniare la sua indiscussa grandezza.

    1. Partiamo dal presupposto che io ho espresso il mio parere e, il mio parere, in quanto mio, può non essere condiviso ma non lo vedo così criticabile. La Medea di Euripide è l’esatta descrizione di molte donne attuali, secondo me, e il mio commento chiarisce come vedo la cosa, quindi inutile ripetersi. Detto questo, ti prego, evita di dare suggerimenti sul “leggi questo e quello”, risultano autoreferenziali, stucchevoli, depongono a sfavore della costruzione di un dialogo costruttivo, perché non sai chi c’è dietro lo schermo, non sai con che contenuti culturali stai tentando di dialogare, riesci solo a infastidire chi ti legge, con il solo risultato di mandare a donnacce quello che poteva essere uno splendido scambio di opinioni. Ma giuro, io amo tutti voi, recensori/critici del momento dall’atteggiamento così snob! Vi manca giusto un po’ di sobrietà, poi siete gli attori perfetti delle parti che vi assegnate :-)

  3. Sto leggendo le varie versioni della Medea, le più interessanti mi sembrano quella di Christa Wolff con gli studi preparatori e quella di Anouilh. Progetto di scrivere un lavoro psicoanalitico sulla tragedia.
    Mi colpisce il commento “narcisistico” di Alessandro Cortese che si esprime dalla prima all’ultima parola con tale sufficienza verso tutti da lasciarmi una domanda: c’è qualcuno al mondo con cui ha uno scambio sentito e paritario? magari il cane,perchè no?

  4. Gentile Anna, Lei mi giudica peggio di quello che sono. Detto questo, non che io sia un santo, anzi, tutt’altro. Il commento narcisistico rientra bene nella caratterizzazione del mio personaggio. Davvero, mi creda, ho meritato il mio narcisismo. Fatte le presentazioni di rito, i miei scambi sono sempre sentiti e sempre paritari, quando l’interlocutore non mi annoia già con la prima frase, tanto dal vivo quanto on line. Ho molto apprezzato il suo modo un po’ ruvido di (ri)chiamarmi in causa, la saluto quindi cordialmente: non sia mai che si dica di me, oltre a tutto il resto (a torto e a ragione), che io sia pure poco cordiale.

  5. Sembra che anche gli animali siano tutti diversi tra di loro, nella pelle, nelle tracce odorifere, nei suoni che emettono. Mi auguro che ciò valga per gli oltre sei miliardi di umani. Cerco di dire che la nostra unica ricchezza e il nostro unico stimolo a riflettere sono gli altri. Che si sia d’accordo o in disaccordo, forse è del tutto incidentale. Non sono nemmeno convinta che si dica la stessa cosa quando si dice buongiorno a qualcuno. Non è questo il vero dramma? probabilmente è del tutto impossibile concordare davvero su qualcosa, volerei più basso cercando vivere e condividere e dire l’emozione assoluta che solo alcuni scritti sanno offrire. Mi dispiace ma il resto, la polemica sopratutto, non mi lascia molto, pur cogliendo il gusto della battuta.

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