“Come un palombaro”, breve racconto di Cristina Biolcati

Cadeva la pioggia e lei pensava di annegare in quel mare senza fine. Non aveva più idee, non provava più niente. I suoi pensieri sembravano sospesi, e giungevano a rallentatore. Come quando una parte di noi si addormenta e, perdendo coscienza, rimane inerme ad osservare.

Avrebbe dovuto muoversi, non poteva stare lì. Si stava bagnando tutta, non aveva nemmeno l’ombrello! La fermata del bus era a pochi passi, poteva distinguerla chiaramente. Doveva raggiungerla, per confondersi tra la folla e ritrovare una parvenza di normalità.  Anche il trucco l’aveva tradita.

Quando si passava le mani sul viso vedeva tracce di rimmel. I suoi occhi dovevano essere neri, di trucco impiastricciato e pioggia, di vita vissuta, di donna “sporca” del proprio dolore. Avrebbe voluto prendere un Kleenex dalla borsetta e pulirsi la faccia, ma era come paralizzata, mentre una voce pazza dentro di lei, flebile e beffarda, le suggeriva che stava bene così, che rappresentava perfettamente il momento. Non vi era nulla di normale in quel tardo pomeriggio d’inizio inverno.

Vide la gente muoversi in gruppo verso la pensilina. L’autobus stava arrivando, da lontano i fari illuminavano la strada. Nella frazione di un secondo, pensò di avvertire qualcuno, una persona amica da far sprofondare nel suo stesso dolore. Realizzò che non c’era nessuno che lei odiasse tanto e al quale augurasse questo. Tutto a tempo debito, ma non adesso. Si concesse un istante per respirare, per cercare di comprendere e metabolizzare.

Alcune infermiere stavano fumando al riparo di un terrazzino, e parlavano animatamente attendendo il cambio del turno. Una signora anziana le passò accanto e le sfiorò il cappotto. Anche lei non aveva l’ombrello, e aveva lo sguardo assente. Un uomo parlava concitato al telefonino e stava avvertendo qualcuno che era arrivato, che stava per entrare. Vite che transitavano, destini, storie, notizie con cui convivere oppure scendere a patti.

Non c’era più tempo, l’autobus aveva accostato e le ultime persone stavano salendo. Si costrinse a muovere i piedi, come fosse un ricordo atavico di chi, in un’altra vita, è stato un palombaro. Un passo dopo l’altro. Reminiscenze innate di un essere umano che, comunque, vuole sopravvivere. I piedi d’un tratto si sollevano, si spostano, cambiano posizione. Primi passi in una nuova vita, da compiere con calma, un giorno alla volta. 

Il referto era ancora fra le sue mani. Fu un gesto automatico di chi necessita liberarsi di una prova che potrebbe comprometterlo. Salì sull’autobus sollevata di confondersi fra la folla, quasi il suo dolore lì non potesse trovarla. Per un po’l’avrebbe ignorata. Le avrebbe concesso un tregua, il tempo di una corsa, prima di tornare a ghermirla e farla sprofondare nella sua solitudine. L’autobus si allontanò, portando con sé il suo carico di gente.

Nel cestino dell’ospedale, un foglio di carta rimase a danzare alla pioggia e alla luce dei lampioni. Le parole erano ormai illeggibili, tutte tranne una.

“Neoplasia” c’era scritto, mentre la vita continuava indifferente e, a raccogliere quella confessione, non era presente nemmeno la luna.

 

Written by Cristina Biolcati

 

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