“L’abitudine del coleottero” di Vincenzo Restivo – recensione di Rebecca Mais

“Ma quando la vita comincia ad assumere le fattezze di tutti gli incubi più terribili che potessi mai avere, quando cominci a capire che il tuo mondo riesce a farti accapponare la pelle molto più di un film del terrore, beh, allora sì che non ti rimane altra scelta che chiudere le palpebre e andare via per un po’. Dileguarsi… Non è egoismo, ma sinceramente non so cosa sia con esattezza, so solo che in parte riesce almeno per qualche ora, a farmi sentire bene, o semplicemente a illudermi.”

Vincent ha appena compiuto diciotto anni ma invece di aprirsi alla vita futura si chiude ancora di più in se stesso, come nel timore che qualcosa di negativo possa travolgerlo.

Ma quell’estate il cambiamento si respira nell’aria, il nonno è ormai al capolinea, la madre attraversa uno dei periodi peggiori della sua vita e l’amico Pan si ritrova improvvisamente e spietatamente nell’età adulta.

Gli unici ad aver raggiunto la serenità sembrano essere solamente il padre ed il suo nuovo compagno Dav. Vincent dovrà pertanto affrontare tutto questo da solo fino a scoprire delle terribili verità che cambieranno irrimediabilmente la sua esistenza.

L’abitudine del coleottero (Watson Edizioni, marzo 2013) è un romanzo di formazione, è il percorso di crescita di un ragazzo che come tanti si trova ad affrontare la vita con la consapevolezza, inizialmente negata, di dover abbandonare la fanciullezza.

È il racconto della perdita dell’innocenza, è la fine del disincanto che nessuno di noi avrebbe mai voluto abbandonare.

E per questa ragione il lettore si trova a compiere un viaggio indietro nel tempo, verso i momenti spensierati della gioventù, accompagnati da sconfinati campi di papaveri che si tingono di rosso sangue e da grossi e ricorrenti coleotteri necrofori, forieri di malesorti.

Questi ultimi in particolare rappresentano l’ossessione più grande del protagonista: la morte.

Tutta la vicenda si dipana infatti proprio attorno al mistero della vita e della morte che aleggia imperturbabile tra il desiderio di sapere e l’ingenuità di Vincent.

Non a caso il soprannome del migliore amico è Pan, divinità mitologica contraddistinta da una forte connotazione sessuale da una parte e Peter Pan dall’altra, l’eterno fanciullo generato dalla penna di Barrie. Una contraddizione ben sviluppata che aggiunge nuovi mondi alla vicenda e che contribuisce ad accrescere l’atmosfera trasognata, alla “Stand by me”.

Ma ciò che in maggior misura sorprende di questo libro è la soavità e la purezza con i quali ogni tematica viene trattata, perfino l’omosessualità del padre risulta naturale, a differenza di come accade solitamente in tanti altri romanzi.

Vincenzo Restivo ha posato tra le righe parte di sé e con questa narrazione ha adagiato in soffitta la sua infanzia, proprio come Pan fa con la sua roba e si è tramutato in una persona positiva, portatrice di verità, riconducibile certamente alla persona di Isabel, la zia del protagonista.

Un libro, che in un primo istante potrebbe sembrare rivolgersi ad un pubblico giovane ma che in realtà tratta delle tematiche piuttosto delicate più agevolmente accessibili ad un pubblico adulto.

Una vicenda che si deposita nel cuore lasciandone traccia indelebile, elaborata con uno stile diretto e vellutato al tempo stesso che non passa di certo inosservato e che raramente si scorge negli scrittori italiani. 

 

Written by Rebecca Mais

 

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5 pensieri su ““L’abitudine del coleottero” di Vincenzo Restivo – recensione di Rebecca Mais

    1. ;) Spero di farlo un giorno. :) Dopo aver letto diversi scrittori emergenti, mi piacerebbe leggere qualcosa di Vincenzo, che dalla tua recensione mi incuriosisce parecchio. :)

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